syrizaposter

Tsipras potrebbe trionfare nelle urne greche per la terza volta in meno di un anno, con una posizione apparentemente diversa da quella sostenuta nelle due precedenti occasioni e alternativa a entrambe: quella anti-Troika delle elezioni politiche di gennaio, e quella anti-accordo del referendum di luglio. 

C’è chi ritiene che questa flessibilità dimostri la statura dell’ex leader antagonista e lo paragona a Mitterand, statista per tutte le stagioni e tutte le contraddizioni, e con il meraviglioso talento di sopravvivere a esse. C’è però sinceramente da dubitare che un nuovo successo di Tsipras - oggi dato per probabile dai sondaggi - e di quel che rimarrà di Syriza, dopo l’abbandono della sinistra interna, possa inaugurare un new deal politico europeo capace di superare le ostilità sulla natura della possibile unità economica dell’eurozona e di dissipare le illusioni su quella invece impossibile, ma tuttora auspicata dai nemici della cosiddetta “dittatura” tedesca.

Il senso di responsabilità con cui Tsipras ha bevuto l’amaro calice di un accordo umiliante con Berlino, guadagnando la patente di statista anche tra i suoi oppositori in Europa, in realtà contraddice, ma non smentisce la sua identità politica di antagonista delle politiche del rigore. Al contrario Tsipras e i membri del suo esecutivo ribadiscono di avere subito una dolorosa capitolazione, ma di non avere né tradito, né rinnegato le ragioni della sfida a Bruxelles, che invece intendono rilanciare in un quadro politico europeo sempre condizionato dalla rigidità tedesca.

Un nuovo successo del premier greco, anziché risolvere l’equivoco sulle colpe dell’Europa matrigna, potrebbe addirittura rafforzarlo, tornando a riproporre, con una nuova legittimazione democratica, la questione della solidarietà europea nei termini della subordinazione della politica e delle regole comuni alle esigenze particolaristiche e alle ambizioni sovrane degli stati membri.

Molti hanno enfatizzato la sordità di Tsipras alle sirene del nazionalismo monetario, interpretandolo come un riflesso sinceramente europeista, quando in realtà il ritorno alla vecchia moneta nazionale suona alle orecchie dei greci assai meno plausibile che a quelle francesi o italiane per ragioni economicamente concrete e non politicamente ideali. Si tratta, di fatto, delle stesse ragioni per cui il governo greco, dopo il referendum, non ha potuto portare avanti il braccio di ferro con Merkel, seguendo il bluff di Varoufakis, ma ha dovuto ingoiare un accordo peggiore di quello che aveva convinto i greci a rifiutare.

Se però l’exit strategy dal rigore che Tsipras propone da sinistra non sembra somigliare a quella che Grillo, Salvini e Le Pen propugnano da destra, tutti condividono l’idea che la costituzione economica europea sia una forma di dominio politico occulto e che il modo molto diverso in cui, all’interno dell’area euro, i diversi paesi hanno usato nell’ultimo ventennio dei vincoli e delle opportunità, connesse alla moneta e al mercato comune, certifichi la “colpa” di chi c’ha guadagnato nei confronti chi c’ha perso e imponga quindi un risarcimento dei primi ai secondi, come condizione per il ritorno a un clima di fiducia e di cooperazione. Mutatis mutandis, come in molti hanno riconosciuto, si tratta della stessa logica che in Italia ha cronicizzato, anziché risolvere, la cosiddetta "questione meridionale".

Se si può immaginare che “questa” Europa evolva coerentemente verso forme di integrazione fiscale che, rafforzando il bilancio dell’Unione, accrescano la sua capacità di intervento sociale (ad esempio nel sostegno al reddito di disoccupati e soggetti a rischio di indigenza), non ci si può attendere che “l’altra” Europa – quella che rivendica, sulla questione del debito, ma non solo, l’esigenza di una giustizia distributiva interstatale, tecnicamente amministrata da Bruxelles – sappia dimostrarsi altrettanto efficacemente solidale nei confronti dei cittadini europei, a partire da quelli greci, che versano nelle condizioni di maggiore difficoltà. Anche qui soccorre l’esempio italiano, in cui i trasferimenti da Nord a Sud, a vantaggio di governi locali orgogliosamente sovrani (e di fatto irresponsabili), ha finito per accrescere le differenze e la disunità del Paese e non la sua convergenza verso standard civili e economici migliori e davvero comuni.

L’Europa ha di fronte emergenze socialmente drammatiche: dall’immigrazione forzata e conseguente all’esplosione della sponda sud del Mediterraneo e di vaste aree dell’Africa e del Medioriente, alla povertà connessa alla perdita di posizioni dei Paesi meno competitivi; dal deterioramento demografico della popolazione, alla manifesta “minorità” strategico-militare di fronte alla sfida del terrorismo globale. Nei fatti, però, una nuova e più stretta solidarietà europea e un modello più efficiente d’intervento su queste aree di crisi interna è un obiettivo politicamente e economicamente alternativo a quello di una, ancorché negoziata, rinazionalizzazione della politica europea, di cui il “rivoluzionario” Tsipras è uno dei più presentabili, e dunque pericolosi, protagonisti.