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Non ci sono ancora sufficienti elementi per capire come Silvio Berlusconi intenderebbe effettivamente declinare l’idea di una seconda moneta, complementare all’Euro, più volte annunciata negli ultimi mesi. In virtù delle tendenze che la politica italiana tutta sembra avere intrapreso, è più che plausibile pensare che, nella mente di Berlusconi, la possibilità per l’Italia di tornare a stampare moneta rappresenti uno strumento per fare nuova spesa pubblica e quindi nuovo debito.

È ancora più probabile, comunque, che l’ex-premier non abbia nessuna intenzione reale di delineare meglio gli obiettivi e le modalità di tale progetto, limitandosi a cavalcarlo nella sua vaghezza per fini elettorali di breve periodo. Si tratterebbe, in pratica, di competere per la rappresentanza del malcontento con una posizione sufficientemente “anti-tedesca” ma che al tempo stesso differenzi l’offerta rispetto all’antieuropeismo più esplicito della Lega e di Fratelli d’Italia. Sarebbe un modo, in altre parole, per "stare un po’ in mezzo” e per “prendere un po’ di voti”.

Eppure, per quanto l’idea di Berlusconi abbia molto più il sapore dell’espediente che dell’elaborazione politica ponderata e valutata in tutte le implicazioni, il concetto di una doppia moneta e più in generale quello di concorrenza monetaria sono molto interessanti per chi muova da posizioni politiche liberali. Anzi, se dietro la proposta delle due monete vi fosse un impianto culturale liberale coerente, si potrebbero aprire percorsi politici di segno marcatamente anti-statalista.

In questo senso ha ragione Piercamillo Falasca quando su queste stesse colonne prevede che una nuova Lira utilizzata per i pagamenti dello Stato sarebbe inevitabilmente destinata a deprezzarsi; tuttavia proprio questo che lui individua come elemento fondamentale di debolezza, in un contesto di implementazione “liberale” diverrebbe il fattore di maggior forza, financo un vero “game changer” nel rapporto tra Stato ed economia.

Concretamente, una “via liberale alle due monete” dovrebbe basarsi sostanzialmente su alcuni elementi essenziali.

Innanzitutto la nuova Lira non dovrebbe avere un cambio fisso – che peraltro sarebbe molto problematico da “difendere” - ma dovrebbe poter fluttuare in libertà rispetto all’Euro. Poi, da un lato la Lira dovrebbe essere usata per pagare i salari dei dipendenti pubblici e le pensioni; dall’altro l’ammontare di soldi in Euro, derivanti dalle tasse dei contribuenti del privato e così “risparmiati”, dovrebbe essere destinato a ripagare il debito pubblico in Euro.

Si potrebbe operare così, nel giro di due o tre anni, una riduzione drastica del debito pubblico nella valuta europea. Nella pratica quello a cui assisteremmo sarebbe uno spostamento del debito, che verrebbe trasferito dalla forma classica (gli attuali titoli di Stato) alla nuova moneta emessa per pagare dipendenti pubblici e pensionati.

In termini complessivi il debito non si accrescerebbe; anzi, nell’ipotesi di una svalutazione del parco monetario in Lire, il debito diminuirebbe in termini sostanziali. Parallelamente al processo di rientro sul debito pubblico in Euro, si potrebbe anche avviare un processo di riduzione della pressione fiscale.

Se dipendenti pubblici e pensionati debbano essere pagati in toto nelle nuove Lire o solo in parte non è questione sostanziale, in quanto interviene nello scenario in termini quantitativi, ma non qualitativi. La probabilità che la nuova Lira, in ogni caso, si riveli più debole dell’Euro è molto alta, in virtù della maggiore debolezza della garanzia offerta da Bankitalia rispetto a quella offerta dalla BCE.

La moneta del settore pubblico quindi perderebbe valore rispetto alla moneta del settore privato, cioè l’Euro, e questo potrebbe riportare l’equilibrio tra costo del settore pubblico e prodotto interno lordo a condizioni di sostenibilità strutturale. Per di più qualsiasi decisione politica di aumentare stipendi pubblici e pensioni in Lire attraverso l’emissione di nuove Lire sarebbe neutralizzata dall’ulteriore deprezzamento della Lira conseguente all’inflazione monetaria.

In sostanza, quindi, l’introduzione di un modello a doppia moneta risulterebbe in una svalutazione selettiva del settore pubblico, andando così ad indirizzare la questione centrale del declino italiano, cioè il fatto che l’agibilità del settore privato sia ormai compromessa sotto il peso insostenibile dei tre debiti – il debito pubblico nel senso classicamente inteso, il debito pensionistico ed il costo inalienabile degli stipendi degli statali. Far gravare il settore pubblico sul settore privato anche solo di 10-15% in meno significherebbe riportare indietro l’orologio ad anni in cui l’equilibrio tra tax producers e tax consumers era ancora tale da consentire al Paese di crescere.

Le ragioni per cui questo tipo di modello è preferibile rispetto al cosiddetto “Italexit”, cioè al semplice abbandono dell’Euro à la Salvini, sono semplici. Innanzitutto la soluzione “sovranista” non entrerebbe nel merito del rapporto tra settore pubblico e settore privato, ma determinerebbe una svalutazione complessiva del Paese e quindi un suo impoverimento. È quest’ultimo un nesso che non tutti colgono, ma nei fatti la migliore definizione di ricchezza è “la capacità di comprare il lavoro degli altri”; ebbene, chi ha una moneta più debole compra peggio il lavoro degli altri e quindi, semplicemente, è più povero.

Nella pratica, in caso di switch-over diretto dall’Euro alla Lira, è pressoché certo che i risparmi degli italiani sarebbero convertiti forzatamente: ciò verrebbe a rappresentare, nei fatti, una patrimoniale di proporzioni gigantesche. È difficile, francamente, pensare che gli operatori economici accetterebbero passivamente questo colpo di mano e non metterebbero in atto invece azioni di disinvestimento di dimensioni tali da poter indurre un collasso del sistema.

Il punto fermo di un approccio a due monete è, invece, che non ci sarebbe nessuna ridenominazione dei conti correnti e, più in generale, che tutti i debiti sarebbero onorati in Euro. Patrimoni ed investimenti non sarebbero a rischio di repentine svalutazioni e conseguentemente non si innescherebbero fughe di capitale e precipitose corse agli sportelli. Non si creerebbe, in altre parole, un pericoloso punto di singolarità sistemica e non si esporrebbe a particolari minacce la tenuta delle banche e delle aziende.

Il modello a due monete appare, in definitiva, una soluzione praticabile e strutturalmente sostenibile, anche se non si può negare che la presenza di due denominazioni in concorrenza con un cambio variabile porterebbe con sé tutta una serie di complicazioni.

Come consentire agli italiani di gestire nella pratica quotidiana la presenza di due valute? Quanto sarebbe più complicato rendersi conto dell’effettivo costo di un prodotto, pagare ed avere il resto? E quanto sarebbe più complicata la vita per i negozianti? Sicuramente ci troveremmo di fronte ad una sfida complessa, ma sono disponibili soluzioni – a cominciare da quella più semplice di non stampare fisicamente le Lire, mantenendo così la presenza di una sola valuta cartacea.

Quello che è certo è che l’occasione potrebbe trasformarsi in uno stimolo decisivo per far progredire il nostro paese nel campo dell’utilizzo della moneta elettronica, recuperando l’attuale situazione di ritardo rispetto ad altri paesi sviluppati.

Agli italiani diverrebbero anche più familiari i concetti fondamentali che stanno dietro l’utilizzo della valuta; questo consentirebbe probabilmente di far pulizia di molti dei miti diffusi sulla stampa di moneta come soluzione alle crisi. Insomma, l’uomo della strada potrà finalmente rendersi conto, per esperienza diretta, se è meglio avere in tasca una moneta forte o una moneta debole.

Peraltro, un Paese che si dotasse degli strumenti culturali e tecnologici per gestire la convivenza tra due valute potrebbe diventare terreno fertile per ulteriori passi avanti nella direzione della concorrenza monetaria. Una volta che si potrà scegliere tra Euro e Lira, perché non si dovrebbero scegliere – ad esempio – criptovalute come il Bitcoin?

Insomma, messe in competizione tra loro e con altre eventuali monete elettroniche, le due valute “sovrane” (Euro e Lire) cambierebbero in qualche modo natura, così come acquisirebbero una diversa valenza le politiche monetarie ad esse legate – riducendo significativamente il ruolo della BCE e della Banca d’Italia. Se vogliamo, il passaggio dalla moneta unica alla pluralità monetaria sarebbe una forma di “denazionalizzazione del denaro”, in senso hayekiano, in quanto diminuirebbe il controllo che le istituzioni politiche – che siano europee o italiane – detengono sulla valuta.

In ogni caso, nell’immediato, la vera questione su cui concentrarsi è quella del rilancio della competitività del sistema Italia, obiettivo per il quale nessuna delle due polarità che oggi si fronteggiano – europeisti da una parte e populisti “sovranisti” dall’altra - sembra attrezzata.

Nei fatti l’unico futuro che gli europeisti sembrano in grado di prefigurare per il nostro Paese è quello di una sopravvivenza come “periferia assistita” graziata indefinitamente, per ragioni squisitamente politiche, dalla Banca Centrale Europea. Al di là della suadente narrazione sull’apertura e sulla fratellanza, quello che gli europeisti nella sostanza sostengono è la difesa dell’esistente sul piano interno, contando sul fatto che la Germania e gli altri Paesi virtuosi continuino a considerare il fallimento dell’Italia un evento sistemico troppo rischioso per l’intero continente e quindi, volenti o nolenti, a garantire il debito italiano ed i tassi di interesse irrisori di cui il nostro paese sta beneficiando.

Dal canto loro i “sovranisti” hanno totalmente frainteso le cause della crisi italiana e reclamano politiche ulteriormente espansive della spesa pubblica. Sul piano pratico difficilmente riusciranno a traguardare il loro obiettivo dell’Italexit perché, con banche chiuse, conti correnti bloccati e bancomat a secco, il loro governo verosimilmente non reggerebbe una settimana; è più probabile che la loro propaganda si traduca semplicemente nel battere i pugni più forte sul tavolo nelle trattative europee – nel tirare la corda un pochino più forte di quanto abbiano fatto Renzi e Gentiloni, nella convinzione che dalle parti di Bruxelles e di Francoforte non si abbia comunque interesse a rompere.

Rispetto a queste due posizioni più diverse nei riferimenti retorici di quanto non lo siano nell’effettiva sostanza, è sempre più urgente elaborare una terza via coerentemente liberale ed euroscettica in senso thatcheriano – una via che punti a ripristinare condizioni di praticabilità economica per il nostro Paese.

I problemi dell’Italia sono in primo luogo italiani e quindi è a livello italiano, non europeo, che devono essere affrontati e risolti. L’unica vera soluzione appare quella di modificare in modo sostanziale il rapporto tra il “baldacchino” e l’ “elefante”, cioè tra il peso della spesa pubblica e le dimensioni del settore privato che deve sostenerla. È un problema che, alla luce dell’esperienza degli ultimi due decenni, appare inaffrontabile rimanendo nell’alveo degli strumenti politici “convenzionali” - troppo forti sono i veti sindacali e corporativi a qualsiasi tentativo di effettuare veri tagli.

La cosiddetta “austerità”, mantra costante del discorso politico e mediatico di questi anni, ha al più contenuto l’espansione della spesa, ma non l’ha certo ridotta – anzi, la spesa ed il debito, favorito dai bassi tassi, sono costantemente cresciuti.

Se si vuole provare a fare qualcosa, serve, in definitiva, il coraggio di concepire “soluzioni laterali” che provino a spiazzare i difensori dello status quo, portando il dibattito su territori meno battuti, dove chi sia meglio attrezzato in termini di comprensione delle dinamiche economiche può disporre di un vantaggio competitivo.

Così come le svalutazioni monetarie sono normalmente politicamente più agevoli delle “svalutazioni interne”, ridurre la spesa pubblica attraverso l’utilizzo di una seconda moneta (de facto meno pregiata) può rivelarsi una strada più percorribile che chiedere a dipendenti pubblici e pensionati dei sacrifici in termini di valore nominale.

La disaffezione crescente nei confronti dell’Euro e la diffusa richiesta di “più moneta” potrebbero – purché ci si attenga alle “regole” sopra descritte – essere “dirottate” verso un obiettivo di minor spesa in termini sostanziali, cioè, in definitiva, di meno Stato e più mercato. Sono le ragioni per cui oggi è sbagliato per i liberali arroccarsi nella difesa dell’attuale assetto europeista come “ultima trincea” e rinunciare invece ad elaborare approcci innovativi e “out of the box” in campo istituzionale e monetario.