La sussidiarietà non è soltanto il principio ispiratore del federalismo. Ha implicazioni importanti in tutti i contesti dove la libertà individuale si intreccia con meccanismi decisionali e con azioni di carattere collettivo, come le relazioni industriali e la contrattazione collettiva.

 

panci marzo 611

Nell'ambito dell'azione pubblica, l'Italia non ha saputo rispondere in modo soddisfacente alla domanda di sussidiarietà e di federalismo che pure si è manifestata con forza negli ultimi venti anni. Abbiamo introdotto il principio di sussidiarietà nel nostro ordinamento costituzionale, ma senza farlo seguire da risultati concreti e apprezzabili ne sul fronte dell'efficacia e dell'efficienza dell'azione pubblica ne dei rapporti tra stato e cittadini. L'ultima riforma federalista, che ha preso corpo nella XVI legislatura, poco o nulla ha realmente cambiato sul fronte delle responsabilità vere dei vari livelli di governo.

Il bisogno di sussidiarietà nel nostro paese va anche al di là dell'ambito dei rapporti tra stato e cittadini e si riflette più in generale sull'economia e in modo particolare sul mercato del lavoro. Su quest'ultimo, il sistema di relazioni industriali cristallizzato nella legislazione e il modello di contrattazione sindacale ancora fortemente centralizzato producono ricadute negative in termini di rigidità e inefficienza.

Il sistema storico delle relazioni industriali italiane si regge ancora sulla convinzione che esse abbiano il compito di gestire e mediare a livello politico un conflitto tra classi sociali. La contrattazione centralizzata nasce dall'idea che il conflitto tra imprenditore e lavoratore è un connotato principale e costante dei rapporti d'impresa, indipendentemente dal settore di appartenenza, dalla localizzazione geografica e da quant'altro di specifico possa caratterizzare una attività produttiva concreta. In questo modello la gestione e la mediazione del conflitto è prioritaria rispetto a ogni altro aspetto del rapporto tra impresa e lavoro, e va gestita a livello politico indipendentemente dalle conseguenze che questo comporta, in barba al principio di sussidiarietà e all'impatto negativo sui livelli di occupazione.

Si tratta di un modello chiaramente non più idoneo a recepire le istanze concrete delle imprese e del lavoro in una economia reale che, da un lato, è decisamente più complessa di quanto fosse nel momento storico in cui il modello stesso fu concepito.
 E che dall'altro lato attraversa una fase di grave crisi occupazionale che esige riforme capaci di rendere più flessibile il mercato del lavoro anche dal punto di vista dei livelli di contrattazione.

Negli ultimi anni i morsi della crisi economica si sono sentiti di più, e abbiamo assistito a numerosi casi di crisi aziendali, alcuni di rilevanza e risonanza nazionale (es. il caso FIAT a Pomigliano), in cui ogni possibile soluzione a vantaggio dell'occupazione non sarebbe stata compatibile con l'attuale sistema di relazioni industriali e con l'attuale modello di contrattazione collettiva. Ma nemmeno questa grave situazione di crisi è riuscita a produrre cambiamenti decisivi. Nel 2011 il governo Berlusconi tentò di introdurre la contrattazione decentrata e la possibilità di contratti collettivi aziendali e territoriali in deroga (anche peggiorativa) rispetto alla disciplina generale dei contratti collettivi di categoria e a buona parte
della legislazione del lavoro in vigore (art. 8 del decreto legge 138/2011). Ma quel tentativo non ha prodotto risultati decisivi, almeno fino a oggi. Anzitutto perché le deroghe ai livelli di contrattazione superiori e alle norme di legge sono soggette a vincoli piuttosto stringenti (es. aumento dell'occupazione, emersione di lavoro irregolare, partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa, nuovi investimenti). In secondo luogo perché la pratica applicazione della norma potrebbe essere esclusa nell'ipotesi di incostituzionalità rispetto all'articolo 39 della Costituzione.

L'argomento "ortodosso" di chi si oppone alla contrattazione decentrata è che l'abbandono del modello tradizionale si traduce in uno scambio iniquo a svantaggio dei lavoratori. In particolare, questi ultimi sarebbero privati di una serie di diritti "inderogabili" e subirebbero l'inasprimento delle disparità nella distribuzione dei redditi. Sempre secondo la tesi ortodossa, a fronte di queste concessioni, gli effetti positivi sull'occupazione resterebbero comunque incerti e a trarne vantaggio sarebbero soltanto i profitti.

Uno studio recente sugli effetti del decentramento della contrattazione sindacale in Germania ("From Sick Man of Europe to Economic Superstar: Germany's Resurgent Economy", C. Dustmann, B. Fitzenberger, U. Schonberg, A. Spitz-Oener, CReAM Labour Discussion Paper 16/2014), però, sconfessa questa tesi ortodossa. Secondo gli autori, se in appena un decennio la Germania è uscita da una condizione di quasi stagnazione economica e oggi riesce a esprimere performance eccellenti e in totale contro tendenza rispetto al resto dei paesi dell'Area euro (in particolare i paesi mediterranei), il merito va attribuito proprio al sistema di relazioni industriali. Un sistema capace di adattarsi con flessibilità, senza grandi traumi sociali e politici, alle esigenze di competitività e di salvaguardia dell'occupazione dell'industria nazionale. Secondo lo studio in questione, al "miracolo tedesco" avrebbe contribuito molto più il progressivo decentramento della contrattazione sindacale, iniziato nella prima metà degli anni '90, cioè nel periodo immediatamente successivo all'unificazione tedesca, che la più famosa e blasonata riforma Hartz del mercato del lavoro entrata in vigore solo nel 2005.

Le performance dell'economia tedesca nell'ultimo decennio sono ben note, ma vale la pena ricordare che nel periodo 1998-2005 la disoccupazione in Germania era notevolmente cresciuta fino ad raggiungere l'11,1 per cento (i tedeschi disoccupati nel 2005 erano 5 milioni). Poi il miracolo. Il tasso di disoccupazione era sceso di quasi quattro punti attestandosi al 7,7 per cento già nel 2010. Il livello di competitività che l'apparato industriale tedesco ha guadagnato grazie alla riduzione del costo del lavoro ha permesso alla Germania di conquistare una quota dell'export mondiale pari a quasi 8 punti percentuali. Peraltro, la riduzione del costo del lavoro prodotta dalla contrattazione decentrata non si è risolta in un impoverimento dei lavoratori tedeschi. È sufficiente guardare gli indicatori della povertà per verificare che, mentre in Italia essa è progressivamente aumentata nel corso dell'ultimo decennio, in Germania essa è rimasta sostanzialmente stabile a un livello decisamente inferiore al nostro. Secondo i dati Eurostat, in Germania gli occupati a rischio di povertà ed esclusione sociale sono passati dal 7,1% nel 2005 al 9,8% nel 2012. In Italia lo stesso dato è passato da 11,6% del 2005 a 18,2% nel 2012. Sempre i dati Eurostat indicano che la percentuale della popolazione totale a rischio di povertà ed esclusione sociale, in Germania è passata dal 19,5% nel 2005 al 21,2% nel 2012, mentre in Italia è passata dal 26,1% nel 2005 al 30,4% nel 2012.

In poche parole, la Germania, in uno spirito di sussidiarietà, è stata in grado di adottare un decentramento della contrattazione sindacale che non solo ha permesso di superare la situazione di dualismo economico emersa a seguito della riunificazione con la ex DDR, ma che si è dimostrato l'elemento cruciale di un vero e proprio miracolo economico, che ha protetto i lavoratori dal rischio di povertà molto più di quanto abbiamo fatto noi.

Dinanzi a questa evidenza è legittimo quanto meno chiedersi, e chiedere ai nostri governanti, che nelle prossime settimane dovranno lavorare all'attesissimo "Jobs Act": cosa sarebbe avvenuto nel nostro paese, che sperimenta un grave dualismo economico da almeno 60 anni, se invece di bruciare risorse per sussidi, aiuti a fondo perduto e cassa integrazione, si fosse riformato il sistema di relazioni industriali rendendolo più flessibile e in grado di rispondere, nello spirito della sussidiarietà, alle istanze e alle esigenze concrete dell'economia reale? Ci troveremmo nella stessa condizione di oggi, o saremmo competitivi come i tedeschi?

Allora è il caso di richiamare l'attenzione sulla necessità che la riforma del lavoro annunciata dal governo Renzi non solo introduca rapporti di lavoro più flessibili, sia in entrata sia in uscita. Ma che, ispirandosi al principio di sussidiarietà, riformi in senso più moderno il sistema delle relazioni industriali e il modello della contrattazione sindacale.