Partiti senza soldi e democrazia senza partiti
Istituzioni ed economia
Il governo Letta, nel 2013, chiuse per decreto la stagione del finanziamento pubblico diretto dei partiti, sostituendolo con un regime di misure e agevolazioni di natura fiscale (il 2 per mille e le detrazioni per le erogazioni liberali) per i finanziamenti privati, all'interno di un tetto massimo particolarmente basso e rigido (100.000 euro).
Il regime transitorio di progressiva riduzione, fino all'azzeramento, degli stanziamenti previsti dal sistema precedente si è definitivamente concluso. Quindi, il problema può considerarsi "risolto"? Il sistema politico si è coerentemente assestato sulle nuove regole? La democrazia italiana potrà davvero funzionare, cioè in primo luogo finanziarsi, secondo le previsioni del legislatore? La risposta al momento è, con ogni evidenza, no.
Della perdurante problematicità di questo tema che attiene, a un tempo, all'efficienza e alla legittimazione dei partiti, si è discusso nell'interessante convegno “I costi della democrazia” organizzato lunedì scorso dall’Associazione Nazionale Forense insieme al think tank "La Scossa" presieduto da Michelangelo Suigo e al circolo Fitzcarraldo nella sede della Corte Civile di Appello. A discuterne con gli organizzatori il deputato Pd ed ex tesoriere di Sel, Sergio Boccadutri, il parlamentare fittiano Daniele Capezzone e il costituzionalista Alfonso Celotto.
La fine del finanziamento pubblico ha comportato un vero e proprio collasso politico-organizzativo in quasi tutti i partiti storici della politica secondo-repubblicana (da FI, alla Lega allo stesso PD). Il 2 per mille (che peraltro è riservato solo agli incumbent, cioè alle forze politiche già presenti nelle istituzioni, e ha un effetto manifestamente anticoncorrenziale) non funziona perché, come era facile prevedere, il trionfo dell'antipolitica non ha incentivato la destinazione volontaria di questa quota di gettito da parte dei contribuenti. A versare il 2 per mille ai partiti sono stati poco meno di un milione di contribuenti su oltre 40 milioni (dichiarazioni 2016, anno d'imposta 2015).
Dall'altra parte, come ha evidenziato nel dibattito Capezzone, risolutamente contrario al ritorno a qualunque tipo di finanziamento pubblico, il clima di ricorrente sospetto o di vero e proprio pregiudizio circa i finanziamenti privati della politica e la previsione di reati, come il traffico di interesse, che sembrano finalizzati a colpire ogni rapporto tra il sistema economico e quello dei partiti rendono di fatto impraticabile la strada che il legislatore ha indicato come obbligata. Perché i privati finanzino la politica, è necessario che il finanziamento, se dichiarato e trasparente, non possa considerarsi sempre a rischio di indagine.
Boccadutri, di contro, ha riconosciuto che la scelta compiuta dal Parlamento si è dimostrata tutt'altro che taumaturgica e che andrebbe concretamente ridiscussa, perché l'assenza di qualunque forma di sostegno pubblico diretto, nella forma del finanziamento o del rimborso elettorale - che peraltro, come ha ricordato il Prof. Celotto, è presente in circa due terzi delle democrazie del mondo - non ristabilisce un rapporto più diretto e partecipe tra forze politiche e opinione pubblica, ma suggerisce l'idea che una democrazia possa meglio funzionare senza partiti e senza forme di organizzazione politica del dibattito e del consenso. Partiti così "disarmati", costretti a ridurre le proprie attività e i propri organici sono inoltre più esposti al condizionamento di poteri finanziari privati.
Di fatto, a distanza di oltre 40 anni, la discussione sul finanziamento dei partiti continua a ruotare attorno al medesimo paradosso. Il rischio della "privatizzazione" della politica, cioè del suo asservimento a poteri economici e perfino criminali (oltre che all'influenza di potenze straniere) spinse il legislatore negli anni 70 a prevedere forme di finanziamento pubblico "profilattiche" rispetto ai rischi di corruzione. La terapia, come è noto, non funzionò.
Dall'altra parte, la scelta di "affamare la bestia" partitocratica, e la conseguente retorica contro l'irredimibilità della Casta, non ha cambiato né migliorato i partiti, ma li ha delegittimati come soggetti tendenzialmente parassitari e rinunciabili della vita democratica. In questo quadro, il problema di un sistema credibile di finanziamento dei partiti e quello della rilegittimazione della democrazia italiana sono intimamente connessi ed è difficile immaginare di potere risolvere il primo senza affrontare di petto il secondo. A mio parere anche gli esiti del convegno di lunedì scorso portano, implicitamente, verso questa conclusione.