Se non sorprende, Parisi non serve. Inutile una destra a rimorchio del proprio passato
Istituzioni ed economia
È praticabile una leadership liberale per un centrodestra illiberale come quello italiano? Oppure c’è un problema più vasto e profondo, che non riguarda solo l’Italia? Sono i partiti che si stanno rivolgendo ad altri elettori, o sono gli elettori stessi che stanno trasformando in senso neoreazionario i partiti liberali e conservatori? A partire da un articolo di Giordano Masini, Strade propone un dibattito sulla mutazione genetica dei centrodestra e delle loro constituency.
Volevo partecipare al dibattito e ho cercato di documentarmi bene facendo un giro sul nuovo sito di Stefano Parisi e su quelli dei suoi avversari interni – cioè più o meno tutta la classe dirigente di FI, Lega e Fratelli d'Italia – dove ho trovato le seguenti cose: generiche espressioni di cordoglio per il terremoto ad Amatrice; generici inviti a votare No al referendum; generici riferimenti alla rinascita del centrodestra; alcune balzane proposte sulla cacciata di immigrati dagli alberghi a cinque stelle o sull'utilizzo del Superenalotto per pagare i conti del sisma; molte maiuscole (persino Legge viene scritto in maiuscolo, dato rivelatore di un trombonismo medio estremamente elevato).
Quindi non so se sia praticabile una leadership liberale per il centrodestra italiano. Non so nemmeno se sia praticabile un qualsiasi tipo di leadership dopo Berlusconi – illiberale, reazionaria, progressista, statalista, libertaria, di stampo sovietico o angloamericano che sia – in quanto la parola “leadership” in genere si associa alle idee e al carattere di chi se la intesta, e qui non se ne vedono di precise. Il leader è etimologicamente colui che guida, e ha quindi bisogno di una direzione, di un pensiero o quantomeno di una chiave interpretativa di ciò che accade. Senza idee, o con l'idea che basti dire “no” all'avversario del momento, non c'è né leadership né posizione politica.
In un Paese dove persino Sergio Marchionne, icona del modello liberale, amato dai fan della Thatcher quanto da quelli di Blair, va alla Luiss e mette in guardia contro la deriva del capitalismo finanziario, destra e sinistra risultano tragicamente indietro nell'analisi della realtà, ma per la destra è peggio, perchè ha perso la rendita di posizione del berlusconismo e della fascinazione fideistica che produceva nell'elettorato.
Non è che l'elettorato sia cambiato, è che non c'è più Lui, con la maiuscola. E senza Lui le promesse di benessere, avanzamento personale, dentiere gratis per i vecchi e mariti ricchi per le ragazze non hanno più la presa che avevano una volta, chiunque le pronunci. L'analisi di Giordano Masini è acuta e convincente: succede in tutta Europa, dice Masini, che il ceto medio una volta desideroso di libertà oggi chieda al contrario tutela, protezione, più Stato e meno mercato perchè il mercato ha messo in mutande milioni di persone.
Ma nel caso italiano c'è una specificità. Nel caso italiano l'elemento irrazionale domina: infatti non vince la sinistra utopista di Tsipras o di Podemos, né la destra anti-europea della Le Pen o di Orban, ma un lunatico M5S che ha costruito le sue fortune sul massimalismo etico di un comico e su un sistema di comunicazione e adesione più simile a una religione che a un partito.
Pensare di contendere al Cinque Stelle il voto di protesta, di riportarlo a casa avviando una gara a chi le spara più grosse (più o meno l'idea di Salvini) è una sciocchezza. Quei voti non torneranno indietro, e le ultime tornate elettorali lo dimostrano. Si dovrebbe avere la pazienza della costruzione politica, la forza dello strappo col passato, anche nel vocabolario: leggo che Parisi preferisce la definizione “liberale e popolare” al vecchio termine “centrodestra”. Ma pure qui siamo al '900, a categorie che nell'esperienza dell'ultimo secolo hanno perso ogni forza e specificità, giacché “liberali e popolari” potrebbero dirsi più o meno tutti gli attori della attuale scena politica, tranne quelli di Forte Prenestino o Casapound.
Leadership, oggi, non è affidarsi alle definizioni di sé, ma è entrare nel merito dei problemi. Prendere posizione su integrazione, povertà, lavoro, Islam, Europa, guerra al terrorismo e all'Is, tutela del territorio, grandi opere, lotta alla mafia e alla corruzione, idea di Stato. Leadership, dunque, significa innanzitutto sciogliere il nodo dei rapporti con la Lega e con Fratelli d'Italia, che su ciascuno di questi temi hanno posizioni di vanaglorioso estremismo inconciliabili con il pensiero stesso di un partito di governo. Leadership significa smettere di inseguire gli altri, o se proprio si deve inseguire qualcuno, come scrive Simona Bonfante, saper scegliere quello giusto: correre dietro al dibattito sul reddito di cittadinanza è più attuale e interessante che accodarsi alla querelle “cacciamo i profughi dagli hotel per metterci i terremotati”.
Detto questo, la domanda posta dalla traccia di questo dibattito su “Strade” a me sembra in qualche modo prematura, anche se è bene avviare la discussione per tempo. La praticabilità di una nuova leadership post-berlusconiana per il centrodestra si capirà dopo l'assemblea di settembre, quando Stefano Parisi avrà parlato, e ci avrà fatto capire che cosa ha in testa e anche qual è il mandato ricevuto dal Cavaliere. Personalmente spero in un discorso conflittuale con le vecchie cricche, stupefacente sul terreno sociale (che è quel che conta oggi), appuntito nel respingere xenofobia e guerre tra poveri. Mi piacerebbe una convention titolabile: "Sorpresa Parisi". Non vedo altro possibile punto di partenza.