maggioni

Le polemiche sul nuovo Cda e sul nuovo direttore generale della Rai sono vane e stucchevoli come l'ipocrisia di denunciare nella lottizzazione delle cariche di Viale Mazzini - e a cascata delle direzioni, delle assunzioni, delle consulenze e del minutaggio delle presenze tv - una patologia e non la fisiologia di un sistema costruito attorno al feticcio del cosiddetto "servizio pubblico di informazione".

Finché l'editore della Rai sarà politico - e tale rimarrà fin quando la proprietà sarà del governo e la garanzia "pluralistica" rimarrà affidata al controllo del Parlamento - le nomine dei suoi amministratori saranno politiche, nel senso deteriore del termine e a prescindere dalla qualità - buona o cattiva - dei prescelti. Chi invoca esempi di tv pubbliche europee gestite in modo non privatistico e proprietario dalle forze politiche finge di ignorare che la storia di una realtà è un'ipoteca invincibile sul suo destino e che la pretesa di immaginare una Rai diversa nel funzionamento, ma uguale a se stessa nella natura e nel commitment della sua funzione, non è semplicemente sbagliata o infondata, ma intellettualmente disonesta.

La Rai non adempie più, come nel primo dopoguerra, a un ruolo di alfabetizzazione civile e di unificazione sostanziale del Paese, né a quello di garanzia del pluralismo politico e culturale, assicurato, nel sistema della comunicazione pre-contemporanea, da una articolazione interna concepita a immagine e somiglianza del sistema dei partiti. Nell'età del duopolio - e del monopolio della TV generalista come canale di informazione ufficiale - la Rai aveva ancora l'alibi di garantire una logica di economia mista del sistema TV. Oggi, la Rai non ha più alcuna giustificazione per la sua esistenza così com'è, se non la sua stessa esistenza così com'è.

Il servizio pubblico di informazione, che andrebbe aggiornato nel suo concetto e riperimetrato nei suoi contenuti, non implica affatto l'esistenza di una Tv di Stato, non più di quanto il servizio pubblico di comunicazione postuli l'esistenza di una società telefonica di Stato. Se esiste un interesse pubblico a garantire prestazioni essenziali e non altrimenti disponibili per un "fallimento del mercato" - ne facciamo un elenco e vediamo se arriva a mezza paginetta? - la soluzione efficiente e democraticamente preferibile non è buttare un miliardo e mezzo di risorse fiscali in una società che fa cinema, fiction e intrattenimento e compete - lasciando peraltro una riserva garantita, di fatto, per legge a Mediaset - sul mercato pubblicitario. È mettere a gara questi servizi, pagandoli il giusto, per conto dei cittadini, a chi fosse disposto a fornirli.

Anche rispetto alla garanzia pluralistica, non ha più alcun senso che si continui a cavillare sul "pluralismo interno" della radio-televisione pubblica o dei singoli player della comunicazione, e non a ragionare su come possa affermarsi un "pluralismo esterno", cioè competitivo, del sistema della comunicazione nel suo complesso, che oggi passerebbe necessariamente dalla disarticolazione della residua struttura duo-polistica, a partire dal suo lato pubblico. Che la democrazia si tuteli continuando a ragionare sull'impossibile "correttezza" e "imparzialità" politica di un Tv con un editore ufficialmente politico evidentemente allontana e non avvicina il raggiungimento di questo risultato.

D'altra parte, se la Rai non serve più a niente di quello per cui era nata, continua a servire moltissimo a ciò per cui è stata utilissima fin dai suoi inizi ai suoi editori, cioè per il controllo del consenso politico. Negli ultimi decenni - dalla Lega al M5S - abbiamo visto sempre più fenomeni politici nascere e imporsi in forma tellurica, fuori e contro la comunicazione tv ufficiale, ma i tg e le trasmissioni della RAI e gli analoghi programmi di Mediaset e La7 rimangono gli strumenti privilegiati di intermediazione del rapporto tra politica e cittadini. È comprensibile che non sia semplice, per chi sta dentro o nei pressi della stanza dei bottoni, rinunciare a controllarne o manovrarne le leve.

La privatizzazione della Rai e la liberalizzazione del servizio pubblico, che sono la premessa per la modernizzazione e lo sviluppo del sistema della comunicazione Tv in Italia, si scontra contro questo evidente conflitto di intessi, che non è solo del Cav. Per iniziare a ragionarne, purtroppo, anche questa è però una legislatura persa, come bene si capisce, più che dalla nomine degli scorsi giorni, dalla legge di riforma della governance Rai, che rimane a distanza di sicurezza dal vero problema e dunque lontanissima dalle vere soluzioni.

@carmelopalma