Dopo la Brexit, l'Europa deve diventare adulta
Istituzioni ed economia
Sull’agitato palcoscenico di Eurolandia, Brexit si è aggiudicata la palma di evento dell’anno. In questa poco invidiabile hall of fame, l’uscita dei britannici dall’Unione Europea segue, a distanza di un anno, lo psicodramma referendario sull’austerità in Grecia nel luglio 2015. Si conclude così un lustro costellato di grattacapi per l’Unione, che pure costituisce la prima economia mondiale.
Al di là dello straordinario shock negativo che Brexit ha portato nel breve periodo a livello macrofinanziario ed emozionale, essa rappresenta al tempo stesso un’ennesima opportunità offerta agli euroentusiasti per accorgersi degli errori strategici che stanno commettendo nella costruzione del progetto europeo. A dispetto delle apparenze, sono ancora disponibili delle possibilità per ritornare sulla retta via.
Il grande pregio del referendum sulla Brexit è stato quello di obbligare i due contendenti – Leavers e Remainers – a scoprire le carte in tavola. In altri termini, a segnalare agli elettori le ragioni del Leave e quelle del Remain. Esaminiamole per sommi capi.
Il fronte del Leave spingeva su tasti economici – l’UE costa troppo e si immischia a sproposito negli affari britannici - ma poi puntava soprattutto su questioni simboliche, secondo una logica oppositiva Noi-Loro: il recupero della grandeur nazionale (una sorta di Make America Great Again! in salsa britannica), lo stop all’immigrazione degli europei dell’est e del sud - dipinti da qualcuno alla stregua di fannulloni rubalavoro, non troppo dissimili dall’inutile e dannosa burocrazia brussellese - e infine l’inevitabile tema della sicurezza, in cui le frontiere porose dell’Unione non sono state il migliore sponsor della libera circolazione delle persone prevista dalle regole del Mercato Unico. Un cocktail di grande effetto per conquistare milioni di elettori, capace di titillare le papille gustative tanto del britannico colto e liberale - il fascino morale della battaglia per la libertà, le ragioni della geografia economica favorevole al Regno Unito - quanto del disoccupato low-skilled delle periferie, che l’Europa non l’ha mai vista, ma ne ha solo sentito parlare (male).
Passiamo in rassegna gli argomenti del Remain: i vantaggi economici del Mercato Unico - ottenuti, tra l’altro, a prezzo di realizzo, visti i forti sconti sui contributi al bilancio dell’Unione di cui la Gran Bretagna gode dal 1985 -, il mantenimento del peso geopolitico - sebbene annacquato nell’identità superordinata dell’UE -, una lotta comune contro le minacce globali, evitare i rischi di secessionismo interno - Scozia e Irlanda del Nord sono pronte a prendere la porta - e, infine, il rischio di un “salto nel buio”, definito “Project Fear” dai Leavers: in altre parole, la vaga minaccia che cose terribili accadranno se i britannici sceglieranno di defezionare e salutare i loro ex-amici europei. Tutti argomenti validi, per carità, ma comprensibili prevalentemente a persone con uno status socioeconomico medio-alto, che hanno studiato (magari usufruendo del programma Erasmus) e viaggiato.
Il vaglio delle ragioni del Remain rivela un preoccupante focus su ragioni incomprensibili o irrilevanti ai più, perché prive di effetti tangibili e immediatamente riconoscibili nelle vite quotidiane dei cittadini. Un po’ come il programma “Medicare” negli Stati Uniti, finanziato dal governo federale per fornire assistenza medica agli anziani: dato che il governo non ricorda ai pazienti che sta pagando loro la visita ogni volta che vanno dal medico, molti americani non sanno neppure che le loro tasse finanziano questo programma federale tanto costoso quanto essenziale per milioni di persone.
Inoltre, resta un mistero il motivo per cui i Remainers stessi ritengano importante essere uniti in un progetto politico comune per istanze diverse da quelle politico-economiche. Un ragionamento, questo, molto pericoloso per la sopravvivenza duratura dell’Unione, perché le convenienze economiche e strategiche, per quanto rilevanti, sono mutevoli per natura, mentre un forte legame identitario può persistere per millenni. È un po’ come unirsi in un matrimonio di convenienza: può durare a lungo e magari può anche sbocciare l’amore, ma, senza la spinta di un sincero sentimento affettivo, perfino una scelta responsabile ben difficilmente permette alla coppia di superare indenne le tempeste della vita.
L’esito del referendum, pertanto, non stupisce. Occorre ammettere che la speranza nel miracolo in extremis (populismi e nazionalismi sembrano prevalere, ma poi, provvidenzialmente, non riescono mai ad avere la meglio) era mal riposta. La base di partenza, costituita dalla percezione di lunga durata nella mente dei cittadini e dalle loro reazioni transitorie ai messaggi elettorali, era ampiamente a sfavore del Remain.
L’errore che molti euroentustiasti continuano pervicacemente a commettere – forse per insufficiente empatia o incapacità di relazionarsi efficacemente con persone di tutte le estrazioni sociali, anche le più umili - è di costruire (e comunicare) un’Europa prevalentemente a misura di Erasmus. Chi, al giorno d’oggi – dicono convintissimi - non ha fatto un’esperienza accademica o lavorativa all’estero? Ma la realtà è che nel Regno Unito nel 2013 il 51% dei giovani non frequentava l’università, come racconta un’indagine pubblicata in quell’anno dal Guardian. Figuriamoci quali prestigiose opportunità internazionali abbia potuto avere questa maggioranza di giovani. Dov’è finita la generazione Erasmus tanto acclamata da autorevoli euroentusiasti? C’è, ma resta pur sempre una minoranza, con buona pace di chi esercita wishful thinking. Se è vero che il progetto Erasmus ha aperto la strada allo scambio interculturale per il ceto medio-alto e non solo la ristrettissima elite del passato, è inevitabile considerare che l’università, specie in tempi di crisi, diventa sempre di più un lusso per famiglie senza una solida educazione o un reddito sufficiente.
Per essere chiari: il progetto europeo è destinato a fallire finché i più poveri e ignoranti non saranno in condizione di abbracciarne gli ideali con forza e convinzione. Finché le masse non scenderanno in piazza per avere più Europa, il sogno di Ventotene resterà nei libri di Storia del Novecento come una bella utopia. Significa questo seguire la via del populismo? Nemmeno lontanamente. Significa, invece, lavorare con pazienza e umiltà per creare la cittadinanza europea, che non passa solo per il Mercato Unico genericamente inteso, ma soprattutto per la realizzazione di una società comune.
L’Europa sarà davvero unita quando esisteranno gli Europei. Ciò sarà possibile quando una telefonata da Kaunas a Nicosia costerà quanto una da un quartiere di Parigi all’altro; quando esisterà una rete di welfare europea (perlomeno equivalente alla Social Security americana): fattori economici palpabili nella vita di ogni giorno. Ma servono anche e soprattutto i valori simbolici: sarà Europa unita quando un portoghese e un tedesco potranno fremere d’impazienza nell’attesa dello stesso reality show nella stessa serata sul medesimo canale pan-europeo, o quando potranno seguire le avventure della selezione europea in una coppa sportiva. Dobbiamo sapere perché un europeo è diverso da un americano o da un russo, ma - si badi bene - non in senso chauvinistico, ma per gli elementi unici e irripetibili che accomunano gli europei e che altri non hanno.
La distanza che ci separa da questo futuro è grande, ma la meta, sebbene lontana, è irraggiungibile se non si inizia fin da subito il viaggio. Siamo solo ai primi vagiti dell’Europa - quella davvero unita. Non vedo l’ora di abbracciare l’Europa adulta, e noi abbiamo il compito eccitante di farla crescere.