basic income

Il 5 giugno scorso poco meno dell’80% degli svizzeri che si sono recati alle urne hanno detto ‘no’ all’introduzione di un reddito minimo di 2.500 franchi per ogni adulto e di 625 franchi per ciascun bambino. La proposta, sostenuta dai movimenti Initiative Grundeinkommen e BIEN-Schweiz, aveva raccolto nel 2013 le centotrentamila firme necessarie perché il quesito referendario fosse posto a livello federale. Non ci interessa in questa sede commentare l’esito peraltro piuttosto scontato di questa consultazione: difficile tuttavia non concordare con l’analisi di Scott Santens, scrittore e attivista per l’introduzione dello Universal Basic Income (UBI), quando afferma che la campagna referendaria si è concentrata più sul come che sul perché di tale proposta. Dettaglio affatto trascurabile, specialmente quando si tratta di introdurre una vera e propria rivoluzione nel campo del welfare a carico dei contribuenti.

Non è mancato chi, in occasione del referendum svizzero, ha rintracciato improbabili coincidenze con la vittoria al primo turno della candidata pentastellata (e oggi sindaco di Roma) Virginia Raggi, quasi esistesse una sorta di wormhole i cui estremi sono rappresentati da un lato dai razionali elvetici che rifiutano la follia del reddito minimo e dall’altro gli improvvidi italiani che invece si fanno sedurre dal retribuito dolce far niente. E’ sufficiente dare uno sguardo alla stampa estera, dove sul tema si dibatte già da tempo, per uscire da quest’analisi riduttiva.

Solo alcuni esempi relativi a queste ultime settimane: il 3 giugno il politologo statunitense Charles Murray si è lasciato andare sul Wall Street Journal ad una lunga analisi intitolata A guaranteed income for every American. E' apparso nell’ultima edizione del New Yorker l'articolo di James Surowiecki intitolato Why don't we have universal basic income? Ancora, il 9 giugno Kevin O'Marah scrive su Forbes Universal basic income is not crazy. Più specifico sull'esito del referendum Jim Pugh su Quartz con il suo Why Switzerland universal basic income matters even though failed. Alcuni di questi articoli sono scritti da attivisti, ma fa una certa impressione ritrovare queste opinioni ospitate su periodici blasonati: non c’è dubbio che sul tema, oltreoceano, stampa e opinione pubblica siano decisamente più open minded.

Uno dei possibili motivi è senz’altro la percezione del rischio reale che automazione e intelligenza artificiale rappresentano per il mercato del lavoro. Uno studio pubblicato nel 2015 dal Pew Research Center rivela che il 65% degli americani è convinto che nei prossimi cinquant’anni robot e computer faranno la maggior parte del lavoro oggi svolto dagli umani. Questa ricerca fa eco al citatissimo paper del 2013 The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation? nel quale Carl Frey e Michael Osborne, entrambi ricercatori ad Oxford, teorizzano che il 47% delle professioni attualmente esistenti negli Stati Uniti sono a rischio per via dello sviluppo delle nuove tecnologie. L’anno precedente era stato profetico il professor Moshe Vardi della Rice University e massimo esperto del settore che in un celebre articolo pubblicato su Atlantic era arrivato a chiedersi “se le macchine saranno in grado di svolgere qualsiasi lavoro, che fine faranno gli esseri umani?”. Sull’argomento la comunità scientifica non è concorde – e non potrebbe essere altrimenti dato che è impossibile avere certezze sul futuro. Alcuni ricercatori – tra cui lo stesso Vardi – sono discretamente ottimisti; altri, come il professor Selman dell’Università di Stanford, sono convinti che le cose prenderanno una piega più drammatica. Comunque la si pensi nessuno si sogna di negare che lo sviluppo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale impatteranno negativamente almeno nel breve periodo sul mercato del lavoro. Se questo sarà in grado di adattarsi ai cambiamenti, è altra storia.

Ecco descritto in poche righe l’humus in cui sta maturando negli Stati Uniti il dibattito sull’UBI, inteso come possibile strumento contro l’incipiente povertà. La discussione in tal senso è aperta già da diversi decenni: già nel 1962 Milton Friedman, premio Nobel nel 1976 e paladino del libero mercato, propose pubblicamente l’introduzione di un negative income tax (NIT). Il modello elaborato da Friedman prevede una no-tax area, sotto la quale il cittadino riceve un sussidio pari al 50% della differenza tra il reddito minimo e quello percepito (e.g.: se la soglia di esenzione è 30.000 dollari e la percentuale di sussidio è il 50%, se guadagno 25.000 dovrò ricevere una NIT di 5.000*50% = 2.500 dollari). Secondo Friedman questo meccanismo garantirebbe equità e progressività oltre a non scoraggiare le persone ad interrompere la ricerca di un lavoro per migliorare la propria condizione economica.

La proposta esposta oggi sul WSJ da Charles Murray, considerato un libertario, prevede invece la sostituzione dell’attuale apparato di welfare (inclusi i programmi Medicare e Medicaid) con l’erogazione di 13.000 dollari annui a ciascun cittadino che abbia compiuto 21 anni: di questi, tremila sarebbero da utilizzarsi per un’assicurazione sanitaria mentre il resto rimarrebbero a disposizione. Nel modello di Murray il diritto a percepire l’UBI è garantito fino ad un reddito di 30.000 dollari annui, superati i quali esso diminuirebbe, senza tuttavia scendere mai sotto i 6.500 dollari. Venendo al Belpaese, la proposta del Movimento 5 Stelle si configura come un reddito minimo garantito (nella proposta 780 euro al mese, ovvero 9.360 all’anno), e lega l’erogazione del sussidio ad un meccanismo di reintegro nel mondo del lavoro.

Lo scoglio maggiore è innanzitutto quello culturale: che fine fa la laboriosità – che Giovanni Paolo II definiva giustamente una “virtù” – se lo Stato ti paga per startene a casa? Da questo punto di vista se di reddito minimo si parla è indispensabile accompagnarlo ad un meccanismo stringente di politiche attive (interessante in questo senso la proposta Ichino). La seconda obiezione è quella relativa alle coperture: dove reperire le risorse per mettere in atto questo strumento in periodi di vacche magre come quello che stiamo vivendo? Rispondere non è semplice e la tentazione di fare nuovo debito è forte. Un restyling complessivo del sistema assistenziale senz’altro aiuterebbe: difficile pensare che non sia possibile razionalizzare la nostra giungla di sussidi, invalidità e reversibilità, risparmiando i miliardi necessari.

I nodi aperti rimangono ma una cosa è certa: rebus sic stantibus di reddito minimo si continuerà a parlare in futuro. Continuare a scansare l’argomento ridicolizzandolo non porta a nulla: molto più utile invece accantonare una visione ideologica e mettere in campo idee per provare a renderlo uno strumento equo e sostenibile.