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In un anno siamo tornati più volte (qui, qui e qui) sulle contraddizioni di un governo rottamatore che ha preferito non sfidare l’ideologia e l’idolatria del (cosiddetto) servizio pubblico di informazione scegliendo di esercitare i diritti che, per legge e convenzione, spettano al suo (cosiddetto) editore.

Le polemiche che hanno, come al solito, accompagnato ieri l’approvazione dell’ennesima “riforma organica” (parole grosse) di Viale Mazzini – nuova governance e canone in bolletta – confermano che a dividere la maggioranza e l’opposizione è solo il modo di intendere e gestire la politicizzazione della Rai, non di superarla.

La politicizzazione della Rai è però una sindrome idiopatica; non dipende da un contagio esterno, cioè dall’inclinazione malevola dei suoi padroni pro tempore, ma dalla natura stessa della sua funzione storica. La Rai è costituzionalmente politica: nasce per fare gli italiani e rifare l’Italia distrutta dalla guerra, mica per garantire un’informazione imparziale e “corretta”. È stata un progetto e un’agenzia di alfabetizzazione politica e civile. È diventata pluralistica, quando lo è diventata anche la democrazia italiana, cioè quando i comunisti, entrati nelle stanze dei bottoni di città e regioni italiane, hanno chiesto (e ottenuto) di entrare anche in quelle della TV di Stato.

Superare la politicizzazione della Rai significa superare la coincidenza coatta tra il servizio pubblico e il gestore pubblico dell’informazione radio-televisiva, non cercare il punto di equilibrio ottimale tra le pretese dell’esecutivo e quelle del parlamento, cioè tra i partiti che comandano oggi e quelli che comanderanno domani, destinati a rinfacciarsi in eterno le medesime doglianze.

Non c’è più nulla del mondo mediatico ed extramediatico che giustificava l’esistenza della Rai, quindi a Viale Mazzini il problema è quello di inventarsi una funzione che ne giustifichi la sopravvivenza così com’è: grande e grossa, spalmata tra la programmazione di nicchia e quella generalista, espansa in ogni dove, piena di rendite e di precariato, di marchette e di pensieri-contro. La riforma approvata ieri, a partire dalla garanzia dei “piccioli”, serve esattamente a questo. Cioè, in senso stretto, non serve a Renzi.

L’insopportabile chiacchiericcio ideologico sul (con rispetto parlando) pluralismo impedisce di vedere come la Rai sia ormai un’istituzione postuma al proprio ruolo sociale e quindi culturalmente alla deriva e catturata dall’esigenza di competere sul mercato dello scandalismo e della maldicenza, del gentismo e dell’indignazione a prescindere. La politica, in Rai, è Giletti, la Gabanelli, il populismo chic e cheap dei talk. Quella è oggi l’informazione mainstream ed è lì che si fanno i numeri e soprattutto si riconquista una funzione visibilmente e autonomamente politica, non nella solidarietà gregaria a un governo che passa, come tutti, mentre la Rai, con il suo pubblico e i suoi problemi di cassa e di funzione, resta.

La Rai da ieri diventa, sulla carta, un po’ più governativa e decisamente più ricca, ma è destinata a diventare, nella sostanza, sempre più di opposizione e sempre più "poveraccista". Non è Renzi ad essersi preso la Rai, è la Rai ad essersi preso pure Renzi per portarselo via con sé, là dove la porta il cuore e il sentimento della “ggente”.