Il canone? A questo punto finanzi la banda larga, non la Rai
Innovazione e mercato
Si può rottamare l’articolo 18 e pure il Senato. Possono crollare (per fortuna) i totem del lavoro e della democrazia, ma non si riescono neppure a scalfire (purtroppo) alcune rendite private annidate nella retorica del “servizio pubblico”. Non si può esternalizzare la manutenzione degli autobus dell’Atac a Roma, non si può aprire il mercato dei taxi a Uber, non si può togliere ai notai alcuna compravendita immobiliare, non si possono liberalizzare le farmacie…
Per la stessa ragione, non si riesce a superare un regime anacronistico che riserva a un unico soggetto, di proprietà statale, cioè la Rai, l’esercizio di una funzione – il cosiddetto “servizio pubblico di informazione” – che si è espansa fino a inglobare l’intera programmazione della Tv generalista.
Da un certo punto di vista, quello della Rai è il monopolio non solo più inefficiente, ma anche più parassitario (più di quello dei notai, dei taxisti, dei farmacisti-con-farmacia), perché in questo caso ad essere in discussione non è solo l’esclusiva riservata a Viale Mazzini, ma anche la sussistenza dei presupposti che giustificano l’esistenza di un “servizio pubblico” ritagliato sulle esigenze della società e sulle caratteristiche della comunicazione pre-contemporanea.
Nondimeno, questo monopolio è paradossalmente il più resistente e anche il premier rottamatore – che sulla Rai si muove in perfetta continuità con i suoi predecessori – si affanna a difendere il ruolo della Rai come insostituibile vettore della cultura-in-Tv e di fatto a garantire la Rai così com’è, in nome di come potrebbe essere.
Anche volendo accettare l’esistenza di un servizio pubblico di informazione di proprietà statale, in nome del mitologico modello BBC (ma la Rai non è la BBC, e non lo può diventare, proprio perché è la RAI), ciò non comporta affatto un sistema di finanziamento che consolidi l’incesto duopolistico della legge Gasparri. Oggi, infatti, il canone serve a sussidiare indirettamente Mediaset, e a risarcire la Rai dei mancati introiti per tetti alla raccolta pubblicitaria particolarmente restrittivi, giustificati proprio dall’esistenza del canone.
La Rai fa più ascolti di Mediaset (38,6% contro 31,9% nel giorno medio – dati 2013) e incassa di pubblicità poco più di un terzo del suo concorrente privato (632 milioni contro 1730 – dati 2013), ma viene ampiamente rimborsata dai contribuenti con circa 1600 milioni di canone, che Viale Mazzini a sua volta non usa per fare “servizio pubblico”, ma concorrenza commerciale a Mediaset sul piano degli ascolti (questi e altri dati interessanti sul mercato televisivo si trovano nella Relazione 2014 dell’Agcom). Un perfetto circolo vizioso.
Questa situazione suggerirebbe la privatizzazione di tutte o della gran parte delle reti Rai, con un vantaggio sia in termini di efficienza che di pluralismo e un risparmio per i contribuenti.
Invece, oltre al feticcio del servizio pubblico, anche quello del duopolio assistito è uscito dai radar dell’esecutivo, che ieri si è rivenduto un (presunto) taglio da 114 a 100 euro del canone, attraverso l’introduzione di un sistema di riscossione di cui non sono affatto chiare le modalità, ma abbastanza chiari i presupposti.
Il canone Rai diventa di fatto una tassa sulle comunicazioni, cioè su ogni tipo di connessione, compresi smartphone e pc. L’obiettivo, visto il nuovo importo, non è un recupero di evasione, ma un ampliamento del gettito. A questo punto, che senso ha che una tassa siffatta vada a finanziare le fiction Rai e non la mitologica banda larga? Che senso ha che vada a supportare la produzione della tv generalista e non l’incremento di informazione potenziale legato a un aumento di connettività? È una domanda che sorge abbastanza spontanea e la risposta potrebbe anche preoccupare qualcuno, a Viale Mazzini.