libia attacco

L'appello del sestetto di Paesi - Italia, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti - che denuncia l'eccidio dell'Isis a Sirte e invoca un "governo di concordia nazionale" tra le diverse fazioni libiche in funzione anti-califfato suona oggi come una paradossale dimostrazione di unità politica.

Paesi divisi per anni, dopo l'11 settembre, sul modo di affrontare e di gestire la dissoluzione politica dell'ordine post-coloniale e le convulsioni fondamentaliste del mondo islamico, oggi si riallineano nel sostanziale disimpegno dal nation building degli stati falliti e dissolti dall'esplosione islamista e si affidano all'impossibile "concordia" di un mondo, dove domina la discordia e la logica della rapina. Se, come dicono gli esperti e i realisti, non ci sono alternative allo "sbrigatevela da soli", allora non ci sono alternative possibili alla rovina.

Il disimpegno occidentale da un pantano che mette evidentemente a rischio il destino dell'Occidente, a partire da quell'avamposto indifeso e frangibile che è l'Europa, ha ragioni democraticamente ineccepibili. Né negli Stati Uniti, né nei paesi beneficiari - tra i primi l'Italia - di quella sorta di pace perpetua garantita per decenni proprio dalla Guerra Fredda, i governi possono oggi sperare, per ragioni molto diverse, di convincere le rispettive opinioni pubbliche a rischiare vite e quattrini in una qualunque guerra fuori casa.

La dimensione nazionale e meramente "difensiva" delle politiche di sicurezza è tornata ad affermarsi con straordinaria forza persuasiva proprio mentre l'evanescenza economica e strategica dei confini formali degli stati si impone come uno dei problemi e dei vincoli costitutivi della politica globale.

Questo contrasto crescente esplode proprio sui temi, in cui i fenomeni di integrazione economica e demografica condannano gli stati a una "mobilità" forzata ben diversa da quella che le frontiere nazionali sembravano promettere. Da molti punti di vista, questo sarebbe, in teoria, tanto più vero per le politiche di sicurezza, in un mondo in cui le guerre hanno perso quasi tutti i caratteri propriamente convenzionali (a partire da quello nazionale e da quello, ancorché latamente, giuridico). Ciò non toglie che questo processo suscita oggi reazioni sostanzialmente di opposizione, a destra come a sinistra, e irresistibilmente in un'Europa che in questo fenomeno vede rispecchiarsi l'essenza stessa della propria fragilità.

Tornando allo scenario libico, la tesi prevalente e ormai ufficiale vorrebbe il disordine causato dal disordinante "ottimismo democratico" che ha portato alla deposizione di Gheddafi. Ma questa tesi serve più come giustificazione ideologica al ripudio preventivo di qualunque forma di intervento diretto, che come presupposto di una strategia diversa. L'Occidente, rottamando il sogno dell'esportazione della democrazia, avrebbe potuto (e magari ancora potrebbe) in Libia e altrove rimediare al disordine politico e religioso riesumando il ferrovecchio del nazionalismo arabo o nuove tecno-tirannie, ideologicamente neutrali, ma tatticamente alleate dell'Occidente? E partendo da dove, e soprattutto con chi? E perché questa strategia di congelamento dell'esistente in Siria non è servita che a spalancare la strada al califfo?

Nell'appello diffuso ieri, che potrebbe essere letto anche come un tentativo di forzare la mano ai protagonisti del "processo di dialogo" guidato dal rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, la sostanza continua a essere rappresentata dall'esclusione di ogni possibile intervento armato alleato (posto che così si possa definire il sestetto) in Libia.

Comprensibile, come abbiamo detto. Ma c'è da dubitare che di fronte alla guerra totale possa sortire qualche effetto un auspicio così disarmato. La pace in Libia non la porteranno i libici. Il Ministro Gentiloni ne sembra consapevole: "O si chiude l'accordo in poche settimane o ci troveremo con un’altra Somalia a due passi dalla costa e dovremo reagire in modo diverso". Ma una reazione diversa, con queste premesse, non è possibile.