Merkel

All'indomani della vittoria del “no” al referendum del 5 luglio scorso, alcuni osservatori scrissero che ad essere sconfitto era innanzitutto il metodo della condizionalità della signora Merkel. Niente più tagli o aumenti di tassi in cambio di aiuti finanziari. Niente più ricatti, scambi o ultimatum sui punti di IVA da aggiustare e sulle sforbiciate alla spesa militare. Alla luce di quanto è accaduto nelle diciassette ore di negoziati estenuanti nella notte tra il 12 e il 13 luglio si può dire con ragionevole certezza che quel giudizio era troppo affrettato. Ci ha pensato la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, a ribadirlo nella conferenza stampa finale di ieri mattina: il principio per cui la solidarietà è concessa soltanto in cambio di piani di riforma è stato confermato, ha scandito soddisfatta.

E l'accordo sembra proprio darle ragione. Non solo le condizioni per ottenere quasi 90 miliardi di aiuti in tre anni sono rimaste ferme, ma sono addirittura state inasprite rispetto alla bozza di accordo di fine giugno. Se quindi il referendum del 5 luglio è ancora definibile come storico, è forse perché il suo esito è stato disatteso a tempo di record. In nemmeno una settimana, il premier greco, Alexis Tsipras, si è arreso alle richieste provenienti dalla Germania e dai Paesi del nord. D'altra parte, il Grexit non era mai stata una opzione percorribile neanche per il governo ellenico, che ha fatto ricorso al popolo soltanto per mostrare i muscoli a Bruxelles. Dal canto suo, la cabina di regia franco-tedesca, pur vacillando, ha resistito all'implosione che pareva profilarsi dopo le uscite del Ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, in sede di Eurogruppo. A ricucire ci ha pensato proprio la Cancelliera, che ha evitato di entrare nel merito della bizzarra discussione su un Grexit temporaneo, lasciando che fossero i vertici del suo gruppo parlamentare ad accapigliarsi con gli alquanto disorientati alleati socialdemocratici. La signora Merkel ha insomma mantenuto la barra dritta, rischiando anche di perdere popolarità, ma alla fine emergendo ancora una volta come il leader indiscusso nel consesso dei Capi di Stato e di governo.

La Cancelliera ha dovuto affrontare una delle prove più difficili dall'inizio del suo Cancellierato e per alcuni giorni dopo il referendum si è ritrovata stretta tra due fuochi: da un lato accontentare chi voleva la Grecia fuori dall'Eurozona oppure, dall'altro, cedere, ancora una volta, alle richieste di aiuto. Nel primo caso, avrebbe rischiato di dilapidare il suo capitale politico, lentamente costruito in questi anni. Essere ricordata come “signora delle macerie” dell'euro, come l'ha definita Der Spiegel qualche giorno prima dell'accordo, non poteva certo essere l'obiettivo dell'allieva prediletta di Helmut Kohl, la cui eredità, nonostante tutto, la signora Merkel intende conservare e proteggere. D'altra parte, non poteva nemmeno ignorare che la pancia del Paese brontola e un semplice salvataggio come gli altri non l'avrebbe digerito. Ecco perché la terza via scelta dalla Cancelliera, agevolata in questo dal fido Ministro delle Finanze, è stata l'imposizione di condizioni impressionanti per durezza e contenuto. In particolare, arrivare a coartare la sovranità del Parlamento ellenico, dettandone tempi e agenda, quasi sovvertendo i rapporti di forza tra maggioranza e opposizione, sembrava inimmaginabile all'indomani della vittoria del governo al referendum. Pur non essendo riuscita a trasferire in mani europee il fondo per le privatizzazioni e l'abbattimento del debito pubblico - niente Sparkommissar, per ora! - ha comunque privato Atene di quel margine di discrezionalità, che sinora aveva impedito alle autorità europee di poter effettivamente incidere sul percorso di riforma. Se ciò sia compatibile con i Trattati, è difficile a dirsi. Certo è che l'“accordo”, anziché essere prova di debolezza, rappresenta un monito a tutti gli altri Paesi in difficoltà. Per la serie: o fate da soli e bene o interveniamo noi.

La Cancelliera deve comunque superare qualche ultimo ostacolo, prima di poter prendere fiato. Questa volta le gatte da pelare sono tutte domestiche. Venerdì, infatti, il Parlamento tedesco dovrà approvare la ripresa delle trattative con Atene e, in un secondo tempo, non appena pronto, votare il terzo bailout. Dal 2010 ad oggi la maggioranza ha sempre tenuto e questo dovrebbe essere a maggior ragione vero oggi con un governo di unità nazionale. Tuttavia, i malumori crescono e molti deputati della CDU/CSU sembrano pronti a voltare le spalle alla signora Merkel, che nel 2017 ha promesso di voler lasciare. I socialdemocratici, invece, paiono destinati all'irrilevanza. Dopo le elezioni del 2013, l'SPD del Vicecancelliere Sigmar Gabriel si è appiattito sulla linea della Cancelliera, incrinando il rapporto con gli ecologisti e la sinistra estrema. La vicenda di questi giorni l'ha dimostrato: più ancora di Schäuble, a finire sotto il fuoco incrociato di maggioranza e minoranza è stato proprio Gabriel, reo di aver prima ammesso di conoscere la proposta sul Grexit temporaneo e poi, di fronte a una virulenta reazione del proprio partito, accusato dagli alleati cristianodemocratici e cristianosociali di essere inaffidabile. Oggi come cinque anni fa, in Germania e in Europa c'è solo Angela Merkel.