Quel che non è scritto nell'accordo tra Tsipras e i creditori
Istituzioni ed economia
Sarà la voglia di veder concludere in qualsiasi modo il “caso Grecia”, oppure per il sentimento di empatia che oscilla a fasi alterne verso un paese al quale somigliamo troppo e verso un altro al quale ci piacerebbe somigliare, resta il fatto nel giro di pochi giorni l’opinione pubblica e i media italiani sono passati dall’esaltazione della vittoria di Tsipras al referendum che avrebbe spacciato Angela Merkel e l’austerità, alla presa d’atto, a tratti anche euforica, dell’accordo che seppellisce lo stesso Tsipras e il suo referendum.
Se era piuttosto evidente che non sarebbe stata una espressione di consenso, per quanto energica, a favore di Tsipras a cambiare lo stato delle cose e a piegare la volontà di paesi che rispondono ad altri elettorati, anche l’accordo stipulato l’altra notte a Bruxelles è tutt’altro che definitivo, e presenta alcune problematicità, sia di carattere politico che economico, che potrebbero venire a galla più presto di quanto non ci si immagini.
Dal punto di vista politico, l’accordo si fonda sulla scommessa che stasera il parlamento greco approvi un duro piano di riforme, duro sia nella sostanza quanto nella tempistica - soprattutto nella tempistica, con una maggioranza simile a quella che aveva accettato, non troppo di buon grado, il piano di Tsipras che smentiva l’esito del referendum. E’ la chiave stessa dell’accordo, stipulato in un clima di tale sfiducia nei confronti del governo greco da pretendere di condizionare qualsiasi salvataggio all’avvio delle riforme, non un minuto prima. Sfiducia senz’altro ben riposta: era stato lo stesso Tsipras che, insediandosi, aveva disconosciuto gli impegni assunti dai governi precedenti, inaugurando una prassi del tutto inedita - e intollerabile - nell’ambito di istituzioni comuni tra paesi civili, senza contare tutto quel che ha combinato dopo.
Ma la scommessa diventa quasi un azzardo laddove si dà per scontato che qualsiasi cambio di maggioranza nel parlamento greco, nel breve o nel lungo periodo, abbia esiti più "europeisti" e non più "nazionalisti". E anche nel caso di nuove elezioni, è puerile non riconoscere che il sentimento di riscatto di una nazione che si sente profondamente umiliata non diventi il capitale politico più conteso tra tutti i partiti, o quasi, e comunque un potentissimo motore per intercettare consenso e potere. Peraltro, il No al referendum allo stato attuale è un risultato notevole ma "orfano", e saranno prevedibilmente in molti nei prossimi mesi a tentare di aggiudicarsene paternità e rendite. Ad oggi registriamo un primo ministro molto disponibile e dignitoso in una intervista rilasciata ieri sera alla televisione di Stato greca. Ma resta da scoprire se questo “nuovo Tsipras” sarà il leader della rinascita greca o piuttosto il capro espiatorio dei molti che si accingono a banchettare con i resti del suo governo. Peraltro, la durezza dell'accordo e la rapidità con la quale è stato accettato da Tsipras impongono che l'accordo, se implementato, funzioni, e che l'economia greca si risollevi davvero. In bocca al lupo.
Dal punto di vista economico, infatti, il dito nella piaga è stato affondato energicamente dal Fondo Monetario Internazionale, che oggi manda a dire che la situazione in Grecia è precipitata al punto tale da rendere indispensabile una nuova ristrutturazione del debito. Il che, oltre a gettare un’ombra su tante certezze declamate negli ultimi giorni, impone una riflessione che già stamattina faceva Josh Barro sul New York Times. Qualsiasi forma prenda un nuovo haircut del debito ellenico - l’FMI propone tre diversi scenari - prestare soldi nella consapevolezza che questi non verranno mai restituiti significa, de facto, dare vita a un’unione fiscale, in cui le differenze di competitività tra diverse aree viene compensata da trasferimenti di risorse dalle aree più ricche a quelle più povere.
L’indicazione - non tanto del FMI o del NYT, quanto dalla realtà, è sostenzialmente quella di andare avanti sulla strada dell’integrazione europea, dal momento che abbiamo visto in questi giorni, nella devastazione del sistema del credito in Grecia, che indietro non si torna. Il Grexit è stato un argomento di conversazione per molti anni, l’assaggio dei suoi prodromi dovrebbe aver fatto comprendere che oltre la conversazione non si può andare, se non si vuole sprofondare il proprio paese in uno scenario di inverno nucleare. E nessuno si potrebbe dire al sicuro, dal momento che in un’inedita unione monetaria competitiva gli spread tra il paese benchmark e gli altri sono comunque destinati ad allargarsi fino a un punto di non ritorno, a prescindere dalla responsabilità politica del governo pro-tempore.
Nulla di strano, in fondo. Succede in ogni paese, grande o piccolo, e può avvenire in forme perverse, come in Italia tra Nord e Sud, o virtuose, come negli Stati Uniti d’America, in cui c’è una vera concorrenza fiscale tra gli Stati, e in cui le risorse federali non sostengono invano gli sprechi di governi decotti e irresponsabili, ma alimentano un sistema di welfare federale che protegge i cittadini in difficoltà e favorisce la circolazione del lavoro all’interno della federazione stessa. Ma in Europa, o in molte porzioni dell’Europa tra cui l’Italia, proprio sul welfare si annidano le più pesanti e invasive incrostazioni corporative e particolaristiche, è proprio il bottino dei soldi destinati a previdenza e assistenza ad essere il veicolo più facile per accumulare consenso e potere, ed è quindi difficile immaginare che un’unione fiscale europea possa realizzarsi attraverso la cessione di sovranità su politiche sociali come l'assicurazione sulla disoccupazione.
Ma il problema resta aperto, e non sarà l’eventuale approvazione, da parte del parlamento greco, del pacchetto di riforme richiesto dall’Eurogruppo a chiuderlo una volta per tutte.