La Grecia, le banche e il complottismo di D'Alema
Istituzioni ed economia
Qualche giorno fa un giovane esponente della sinistra PD avversaria di Renzi, tale Massimo D’Alema, ha ripreso una vecchia polemica già più volte sollevata da Beppe Grillo o dal centrodestra bolivariano-chavista che abbiamo in Italia: i tanti miliardi di aiuti concessi in questi anni dall’Europa alla Grecia sono in realtà finiti alle banche tedesche, francesi e italiane e non al popolo greco. Nei tanti calcoli stregoneschi che girano in Rete, si dice di solito che solo il 10 per cento dei circa 250 miliardi di euro concessi alla Grecia dai governi europei (direttamente o tramite il cosiddetto Fondo Salva Stati), dalla BCE e dal FMI siano in realtà “finiti” a sostenere l’economia reale greca. Il resto - sostiene ad esempio la campagna britannica Jubilee Debt - sarebbe stata speso "per salvare le banche e addolcire gli speculatori e far loro accettare la ristrutturazione del debito del 2012”.
Queste argomentazioni sono prive di senso. Proviamo a fare un esempio di vita familiare. Immaginiamo un lavoratore dal reddito modesto, con un mutuo da pagare, una famiglia a carico e un tenore di vita al di sopra delle sue possibilità. Appena prima che la banca pignori la sua casa - non riesce più a pagare le rate del mutuo - i suoi fratelli maggiori e più ricchi gli dicono “noi ci facciamo carico del tuo mutuo, i soldi poi li darai a noi senza interesse, ma tu da oggi smetti di fare la bella vita”. Chi stanno aiutando, le banche o il fratello indebitato?
Quel che è accaduto dal 2010 ad oggi è molto semplice: gli altri paesi europei, di fronte all’impossibilità della Grecia di sostenere il proprio debito pubblico, si sono sostituiti ai creditori privati a condizioni molto favorevoli. Atene non deve pagare nessun interesse sui prestiti del Fondo Salva Stati e si vede restituire i rendimenti dei prestiti ricevuti dalla BCE e dalle altre banche centrali nazionali; la maturità media del debito greco è ormai di 16,5 anni, doppia di quella di Germania e Italia e significativamente maggiore di quella di paesi come Portogallo e Irlanda (11 e 12,5 anni). Senza questo sostegno, la Grecia avrebbe dichiarato bancarotta già qualche anno fa e sarebbe stato estremamente penoso per tutti, perché l’intera economia europea avrebbe subito il contraccolpo finanziario. Grazie all’intervento dei contribuenti europei, è stato concesso alla Grecia il tempo per ristabilire condizioni minime di sostenibilità. E le perfide banche? Anziché rischiare di restare con un pugno di mosche in mano, nel 2012 hanno in gran parte accettato le pesantissime condizioni poste loro dalla politica euroepea: il taglio del 53,5 per cento del valore dei titoli di stato greci che detenevano in portafoglio.
La Grecia è come quel fratello scapestrato dell’esempio di sopra. La sua casa non è stata pignorata, non paga interessi per i debiti che deve restituire ai suoi fratelli, ma ha subito da questi un aut aut sul suo stile di vita: spendi meno e mettiti a produrre di più. Le tante misure di austerità che i governi greci hanno assunto dal 2010 in poi non hanno impoverito la società greca: banalmente, le hanno restituito la sua condizione fisiologica. E’ penoso dirlo, tutti vorremmo che non fosse così, ma la realtà va accettata se si vuole migliorarla.
Come spiega Ricardo Hausmann in un articolo dal titolo autoesplicativo (Austerity is not Greece’s problem, per Project Syndicate) dal 1998 al 2007 la crescita annua del Pil greco è stata in media del 3,8 per cento, seconda in Europa solo all’Irlanda e superiore alla Spagna. Fino al 2007, l’economia greca ha speso circa il 14 per cento del Pil in eccesso rispetto a quanto produceva, un divario superiore al doppio di quello spagnolo e più alto del 55 per cento di quello irlandese. Mentre in Irlanda e in Spagna il gap rifletteva la bolla del settore immobiliare, in Grecia il divario era solo fiscale ed è stato usato per alimentare prevalentemente i consumi, non gli investimenti.
Il taglio della spesa pubblica dal 2010 in poi è stato necessario per evitare che, tappata una falla con i mega-prestiti europei, altre crepe si aprissero nella nave greca. Per uscire dalla crisi in cui è sprofondata, euro o non euro, la Grecia non può vivere di spesa pubblica e di solo export di olive, feta e turismo, deve diventare un’economia avanzata e innovativa, deve mettersi a "fare cose” che il mondo vorrà comprare. Altri fratelli della Grecia - l’Irlanda, la Lettonia o la Slovacchia - sono piccole nazioni europee, storicamente povere e certamente meno affascinanti della Grecia. Hanno l’euro, hanno patito la crisi ne sono uscite. Hanno capito come si sta sulla scena globale, come si crea ricchezza e come la si lascia diffondere tra i vari strati della popolazione.
Ci vorranno anni? Sì, ma alla Grecia siamo disposti a dare molti anni e ancora molta fiducia. Ma deve meritarsela. Non può illudersi che ridistribuire in modo diverso la stessa torta (come prevedeva il programma elettorale di Syriza) crei nuova prosperità. Né può pretendere che i fratelli maggiori europei, oltre ad accollarsi il debito, assicurino ai greci anche il tenore di vita che questi avevano quando sperperavano risorse che non producevano.