Dopo quella sull'art. 18, quella sulla scuola è la seconda "rottura" del governo Renzi rispetto ai valori non negoziabili della sinistra italiana. Ma le due grandi battaglie interne ingaggiate dal leader del PD non sono sovrapponibili e non ne saranno presumibilmente uguali gli esiti.

scuola

Sull'art. 18 Renzi ha vinto per ko, contro un avversario carico di gloria, ma socialmente bollito e politicamente suonato, che pur rappresentando un mondo - quello, per semplificare, di pensionati e garantiti - pretendeva di rappresentarne un'altro - quello, sempre per semplificare, degli esclusi - che dal sindacato tradizionale aveva preso ampiamente congedo e che il superamento dell'articolo 18 non privava di nulla, offrendo al contempo un insieme di tutele migliori e maggiori di quelle, prossime allo zero, di una permanente e cronica "atipicità".

Le grandi centrali del sindacato confederale e in particolare la CGIL sono state letteralmente schiantate da una strategia intelligente, che senza togliere niente a nessuno dei loro rappresentati, dava qualcosa, poco o tanto che fosse, ai loro non-rappresentati. Così, la vittoria di Renzi è stata politicamente molto più larga di quanto non sia stata "radicale" la sua riforma.

Oggi la questione è decisamente diversa. La riforma in discussione incide sul modo di "fare scuola" e implica un (molto) relativo regime change per tutti. La stabilizzazione di centomila precari non risarcisce, né tranquillizza il milione di "operatori" che si erano accomodati su un'idea e un modo di funzionare delle istituzioni scolastiche tributario del peggio della storia della sinistra (il burocratismo inefficiente), ma pure onestamente del suo meglio (la vocazione pedagogica e sociale): la scuola pubblica come principale casamatta della cultura civile conquistata e annessa alla causa ugualitaria e anti-autoritaria della sinistra politico-sindacale è molto più della classe operaia la vera anima ideologica di quella sinistra che, lungo le vie tortuose della scomposizione e ricomposizione partitica, dalla fine del PCI è arrivata al nuovo inizio del PD, quello "renziano" .

La retorica vetero-sessantottina che rimbomba nella propaganda di insegnanti, genitori e studenti "democratici" suona certo retrò a milioni di elettori del PD, ma rincuora e accende la passione di almeno altrettanti, se non più, elettori antropologicamente di sinistra, che Renzi non può perdere di vista. Quanti degli insegnanti che stanno bloccando la scuola italiana, che boicottano i test Invalsi e che minacciano as usual il blocco degli scrutini hanno votato alle elezioni europee per il PD di Renzi, e quindi per Renzi, senza essere "renziani"? Certamente la maggioranza, forse anche una grande maggioranza.

Con loro Renzi è costretto a trattare, non solo perché sono tanti, ma perché parlano a tanti. Per non perdere del tutto il contatto con questo mondo il premier è costretto a fare molte marce indietro e aggiustamenti (si legga su questo Oscar Giannino) di una riforma già di per sé tutt'altro che "nucleare". Niente a che vedere con il muro contro muro del Jobs Act. Renzi può vincere e l'idea di allargare il fronte dello scontro ponendo, davanti a una lavagna, una sorta di "questione di fiducia popolare" sulla riforma dimostra certamente questa intenzione. Oppure può pareggiare, se l'esecutivo continuerà a tenere il punto generale, concedendo ancora qualcosa sui punti particolari della legge in discussione. Oppure può perdere, se sarà costretto a stralciare la riforma dalla sanatoria, facendo la seconda per decreto e lasciando la prima su un binario morto parlamentare.

Se fosse una schedina del totocalcio nello scontro tra Renzi e i difensori della "scuola democratica" sarebbe razionale giocare la x.