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Come calarsi le brache di fronte al più grande esportatore del mondo. Oggi l'Italia è il primo paese del G7 a firmare un Memorandum d'intesa con la Cina sulla "Belt and road initiative" (BRI, o Via della Seta, come la chiamano tutti).

Per la Cina la BRI è un progetto strategico di lungo periodo volto a contrastare l'egemonia americana e mettere in sicurezza gli interessi nazionali nei quattro angoli del globo. Una nuova fase di espansione che mira ad avviluppare Europa e Asia con infrastrutture dei trasporti, investire l’immane riserva di liquidità accumulata negli ultimi decenni e creare nuova domanda per i propri prodotti. Per quanto generico e poco vincolante, il Memorandum è il primo passo per la creazione di corridoi privilegiati per gli investimenti e le esportazioni cinesi in Italia.

E per l'Italia? In teoria anche per noi, nel quadro della "reciprocità" più volte sbandierata nei resoconti ufficiali, potrebbero aprirsi simili corridoi, fanno credere i 5 stelle (la Lega invece si è completamente sganciata dalla trattativa). Peccato che noi abbiamo ben poco da investire. Quanto alle esportazioni, l'unico aspetto concreto del Memorandum è rappresentato dalla cassetta di arance che campeggia nei meme ridicoli diffusi dai grillini in questi giorni: noi potremo esportare le nostre arance in Cina via aereo anziché via mare.

Le arance. In Cina.

Luigi Maio non sa che le arance sono nate in Cina. Che la Cina da sola produce tutte le arance del Mediterraneo. Il ragazzo era talmente impegnato a farsi i selfie nell'economy class del volo per Shangai (mentre il resto della delegazione viaggiava comodamente in prima classe, peraltro) da non trovare il tempo di farsi spiegare cosa sia la Cina, né di imparare correttamente il nome dell'uomo più potente della Terra (che poco più tardi, in una stanzetta scarna riservata alla delegazione italiana a margine del Forum, avrebbe storpiato in "presidente Ping").

L’export italiano in Cina di prodotti di agricoltura e pesca è di appena 38 milioni di euro. Non ci compri nemmeno un centravanti di questi tempi. La Cina esporta in Italia beni ad alta o altissima intensità tecnologica come macchinari per il manifatturiero, prodotti chimici e farmaceutici, autoveicoli e telefoni (solo per dirne alcuni) per decine di miliardi di euro. Prodotti per i quali non siamo in alcun modo in grado di sostenere la concorrenza cinese, vista l'arretratezza della nostra struttura produttiva. Che nella migliore delle ipotesi finirà per specializzarsi sempre più in settori a basso valore aggiunto. Quelli senza futuro.

Ora intendiamoci: l'apertura delle frontiere è sempre una cosa buona e i rapporti con la Cina hanno importanza fondamentale. Ma la trattativa doveva essere condotta insieme all'Europa e su ben altre basi, da persone con ben altra competenza. Ci vuole la preparazione e la visione di un bambino delle elementari per sperare di compensare una penetrazione commerciale di proporzioni colossali inviando alcune cassette di arance (rammollite dal lungo viaggio, peraltro) nel mercato che produce 1/4 di tutte le arance del mondo.

O forse, per dirla tutta, Di Maio e i suoi "economisti" speravano che la Cina finanziasse il reddito di cittadinanza. O in altre parole il nostro debito pubblico. Niente di più pericoloso in termini di perdita di sovranità nazionale. Come ha scritto Pier Carlo Padoan qualche giorno fa, un conto è il finanziamento del debito sovrano da parte dei mercati e a condizioni di mercato. Un conto è un finanziamento offerto, magari a condizioni generose, in cambio di concessioni politiche e diplomatiche. In tal caso la Cina avrebbe un forte potere di condizionamento nei nostri confronti, soprattutto in un contesto in cui, grazie alle politiche del governo, il debito tornerà a crescere (e con esso lo spread) rendendo sempre più difficile il finanziamento della spesa in deficit. Altro che sovranismo.

Una delle risposte che dagli ambienti grillini si oppongono a queste considerazioni (si vedano per esempio le pagine dedicate oggi dal Fatto Quotidiano ai "vantaggi" del memorandum) è: è vero, ci sottomettiamo alla Cina, ma in fondo non è ciò che per decenni abbiamo fatto con Gli Stati Uniti? Si può ribattere in tanti modi, ne scelgo uno che poco ha a che fare con l'economia: gli Stati Uniti sono una democrazia in cui le libertà di stampa e di espressione sono rigorosamente tutelate. La Cina, no.

La dimensione e la durata dei danni inferti al paese dall'avventura di questi scappati di casa sono sempre più spaventose.