dimaiopernigotto

Di nuovo il nostro Ministro dello Sviluppo Economico Di Maio parla di prossima approvazione di un "Decreto" o "Legge Pernigotti". Non è ben chiaro quale sarà il contenuto di questo magico provvedimento che, secondo il ministro, dovrebbe "mantenere i marchi legati al territorio" ed evitare che vengano comprati da aziende straniere che poi portino la produzione all'estero.

Per cercare di immaginare però in cosa possa consistere, anzitutto esaminiamo il casus belli, cioè il caso Pernigotti.

La nota azienda dolciaria che al momento della vendita fatturava 75 milioni di euro, è stata ceduta nel 2013 dalla famiglia Averna (quelli dell'amaro) alla società turca Toksoz, un gruppo da 450 milioni, in un'operazione che - a quanto trapela - non prevedeva impegni da parte dell'acquirente a mantenere per sempre la produzione nel sito di Novi Ligure. D'altra parte è difficile che un qualsiasi compratore si impegni in tal senso perché le condizioni di mercato possono cambiare. In ogni caso, la famiglia Averna non sembra aver ritenuto necessario vincolare la vendita della Pernigotti all'accettazione di una tale pesante condizione.

Per mia esperienza ci sono quattro motivazioni principali dietro la vendita di un'azienda italiana a conduzione familiare:

1. Passaggio generazionale insufficiente: la nuova generazione non ha interesse a continuare l'attività o non ne ha la capacità.

2. La vecchia proprietà cerca un partner, cui affida la maggioranza, perché possa aiutarlo a sviluppare l'azienda su nuovi mercati (in questi casi quindi detiene una quota di minoranza, a volte anche significativa, per controllare che questo avvenga e beneficiarne economicamente).

3. La società è in perdita e la proprietà non ha intenzione o la capacità di finanziarla ulteriormente.

4. La proprietà non ritiene più l'azienda strategica per il proprio gruppo e vuole diversificare o rafforzare altri settori.

Il caso Pernigotti, stando a quanto si apprende dalla stampa, sembra appartenere alla terza e quarta categoria: una scelta imprenditoriale chiara di uscire dal business e di lasciare le redini a un gruppo percepito come finanziariamente più forte. Le motivazioni vere e profonde della decisione della famiglia Averna non le sapremo mai, ma in un economia di mercato sono insindacabili. O almeno dovrebbero esserlo. L'alternativa, cioè che lo Stato avochi a se il diritto di decidere se un gruppo privato può o meno vendere un'azienda e a chi, sarebbe inaccettabile.

Per inciso, esistono già delle norme in Italia, simili a quelle francesi o tedesche, che proteggono settori ritenuti "strategici" da acquisizioni straniere. Si parla però di difesa, telecomunicazioni, porti e infrastrutture, energia. In tutte queste industrie è stato ritenuto importante per lo Stato monitorarne la proprietà effettiva e quindi la possibilità di influire su scelte strategiche industriali del Paese in questione. Queste restrizioni esistono in quasi tutte le grandi economie: gli USA, per esempio, con lo CFIUS sono in grado di bloccare acquisizioni straniere in settori critici per la "sicurezza nazionale". La stessa Unione Europea sta cercando di adottare una normativa comune a difesa di alcuni settori da acquirenti extra UE che speriamo chiarisca una volta per tutte che perlomeno all'interno del mercato unico, passaggi di proprietà di queste aziende non dovrebbero costituire un problema (il caso dei cantieri navali francesi dimostra che ancora non è così).

Sarebbe ridicolo oltre che un unicum in tutto il mondo considerare la produzione di dolciumi (o di abbigliamento, o di dentifrici, e chi più ne ha più ne metta) "strategica" per un Paese. Anche se volessimo arrivare a questa follia, bisognerebbe aspettarsi che altri paesi "reciprocherebbero", cioè impedirebbero ad aziende italiane di acquisire brand straniere nel settore dei dolciumi. Cosa che gruppi come Ferrero o Perfetti hanno fatto in passato, e con grande successo, trasformando due aziende italiane in vere multinazionali.

In che modo quindi intende il governo evitare futuri casi Pernigotti? Sinceramente, non me ne viene in mente uno che funzioni.

Se "legare il marchio al territorio" significa imporre che un qualsiasi acquirente si impegni (verso chi? verso il venditore? verso lo Stato? in che modo?) a mantenere la produzione in eterno in un certo sito produttivo, è ovvio che questa misura - peraltro inammissibile all'interno di un paese della UE - non farebbe altro che scoraggiare investimenti e acquisizioni. E quindi nell'ipotetica situazione Pernigotti, nell'assenza di un acquirente, l'unica strada percorribile sarebbe stata la lenta chiusura dell'azienda, posto che la famiglia aveva già deciso di uscire dal business.

Se invece significa imporre che la proprietà di un famoso marchio italiano resti sempre in pancia ad una società italiana, l'effetto sarebbe lo stesso, aggravato dal fatto che dal punto di vista legale esisterebbero molti espedienti per garantire il rispetto formale e non sostanziale di tale requisito.

Restiamo quindi in religiosa attesa della proposta governativa che dovrebbe contemperare la tutela della proprietà privata, l'esigenza di "legare il marchio al territorio" e allo stesso tempo rispettare quelle normative europee e internazionali che consentono alle nostre stesse aziende di espandersi fuori dal Paese. 

Nell'attesa però mi rimane un dubbio: come mai, visto l'alto grado di "patriottismo" espresso alle elezioni degli ultimi 6 anni, quando la famiglia Averna ha deciso di vendere non si è fatto avanti qualche altro gruppo italiano per rilevare la Pernigotti e aggiungere un altro prestigioso marchio alla sua filiera, dimostrando in questo modo il suo reale "patriottismo"? Forse gli italiani sono veramente diversi da quelli che immagina Di Maio.