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In giro, sui social e nelle convention politiche, è in corso un dibattito interessante sulla jobs guarantee. Dibattito decisamente caldo negli Stati Uniti, dove Sanders e Booker, due potenziali incumbent democratici per il 2020, sono a favore. Ne parlava in questi giorni anche Lorenzo Marsili di Diem25 Italia, il movimento transnazionale guidato da Varoufakis. Da quel che ho capito entrerà nei programmi (o almeno dovrebbe secondo Marsili) di Diem.

Ma cosa è la jobs guarantee? Di base, l'evoluzione del concetto di welfare assistenziale in un welfare di impiego (quello che ad un certo punto in Italia, per capirci, erano i lavoratori socialmente utili, ma universale). Sei disoccupato e vuoi lavorare? Ti faccio pulire strade, fare il doposcuola, ecc.

Mi sembra che ci sia un punto comune di partenza con quella che è la mia personale visione: l'uomo trova dignità nel lavoro o, per dirla meglio, nella sua partecipazione al benessere collettivo. Cioè, manipolando Keynes, se lo metti a riempire e svuotare una buca non ottieni un uomo più degno e realizzato. Se fa un lavoro che produce benessere per la collettività o riconosciuto socialmente, sì. La base di partenza è decisamente migliore di qualsiasi ragionamento reddituale (reddito di cittadinanza, ad esempio). In quel caso non è l’apporto alla società ma il solo valore di essere cittadini a dare diritto a un reddito (un reddito, non una assistenza). 

Tutto questo dibattito prende le mosse, certamente, da una visione tragica sugli anni che abbiamo davanti. Credo fermamente che l'innovazione tecnologica non creerà disoccupazione nel lungo termine, anzi. La verità però è che la transizione sarà rapida (a mio avviso meno di quanto molti credano) e dunque spiazzerà competenze. L'aggiustamento durerà anni e nel mentre rischiamo un aumento tendenziale della disoccupazione strutturale. Vite appese. Una tendenza, certo. Una sentenza? A mio avviso no.

Ora, posto che vediamo problemi simili, non posso che dirmi contrario alla soluzione proposta. Per vari motivi che vado ad elencare:

1) Un sistema del genere porta con sé una radicale inefficienza strutturale. Non solo, ed è la critica più banale, nella gestione di una macchina abnorme. Si porta dietro la necessità, se fosse vero che abbiamo davanti periodi con milioni di disoccupati, di occupare man mano (in maniera inefficiente nel mix capitale lavoro, per definizione) aree via via più vaste dell'economia da parte dello Stato. Poiché, se diamo per scontato che non vogliamo fare finta che queste persone abbiano un lavoro, dobbiamo occupare non settori oggi non valorizzati (pulizia delle strade, ad esempio) ma anche settori oggi occupati da aziende private.

2) Un sistema del genere spiazza la domanda di lavoro privata, soprattutto nella fascia di lavoratori a bassa specializzazione. Crea un sistema di monopsonio pubblico dove non vi è incentivo alcuno a cercare di tornare al settore privato, incerto, se c’è una copertura pubblica ad libitum senza condizioni. Cioè accelera o il processo di sostituzione degli operatori economici privati con quelli pubblici disegnato sopra, oppure accelera la necessità della sostituzione del lavoro col capitale, poiché rende più costoso il lavoro. Spinge quindi ancora di più la convenienza della automazione. Salvo, è chiaro, che il lavoro per tutti sia con un salario pari alla soglia di povertà relativa, che rende dunque conveniente il lavoro privato. Ma non credo che siano queste le intenzioni. Oppure aspettare che i privati aumentino i salari offerti. Avverrebbe, riducendo di molto il numero di occupati, aumentando la flotta di occupati dallo stato, ecc.

3) Spiazza l'investimento privato poiché una tale operazione non può che essere finanziata a deficit. Cosa vuol dire? Che il settore privato si trova in difficoltà, riduce gli investimenti, non accelera la transizione verso un modello sostenibile rimanendo esposto agli avanzamenti degli altri.

4) Il rischio inflazionistico, che forse non è il più grave, è piuttosto legato al punto due e a un effetto "scala mobile" di rincorsa tra salario garantito e salario minimo nel privato. Non potrebbe che rendersi piano piano necessario un salario più alto nel privato che necessariamente porterebbe (non essendo legato alla produttività) a inflazione o disoccupazione. Dunque o rendendo lo stato obbligato a rialzare il salario garantito (spirale da scala mobile) oppure ad ausiliare più cittadini.

5) Salto a piè pari discorsi etici, di carattere nazionale e religioso (lo scarso "calvinismo" italico) e il rischio di spostare totalmente le preferenze degli agenti. Perché questi lavoratori poi devono lavorare, essere controllati, ecc. E, attenzione, che spostare le preferenze e le abitudini degli agenti modifica lo stato dell’economia con difficoltà nel tornare indietro enormi.

6) Lo stato perderebbe totalmente il controllo della leva fiscale. In sostanza sarebbe esposto a quello a cui è esposta una banca centrale quando fissa un cambio mentre è in corso una svalutazione della sua moneta. Sarebbe costretta a fornire risorse all’infinito fino al punto di alzare bandiera bianca.

7) è da constatare, seppure sia un problema che merita una soluzione e non la negazione di un intervento di welfare, qualunque esso sia, che l’aumento degli interventi di solidarietà e di assistenza aumentano il valore della cittadinanza e rischiano di rendere più settaria la gestione delle migrazioni.

Tirando le somme, ci troveremmo o con uno stato padrone di fette ampissime dell'economia o con una spirale di arretramento ulteriore della componente lavoro nel privato. Fatto salvo che il settore privato non faccia crash direttamente, a causa del mix tra il punto 2 e il punto 3. 

Ci sono alternative per chi vede comunque il cambio d’epoca, le problematiche in arrivo? A mio avviso sì.

L'educazione, l'università e il diritto allo studio, la cultura, le politiche attive. Serve un piano da 1-2 punti di PIL che cambi totalmente il paradigma. Non basta, fosse anche solo per l'inerzia. Ma serve certamente ad accelerare quel processo di transizione che certamente creerà nuove esigenze, nuove professionalità, nuovi consumi.

Un cambio di paradigma fiscale: meno tasse sulle persone, in particolare le fasce reddituali basse senza aliquote eccessivamente penalizzanti (e quindi regressive per l’economia) per le fasce più alte, più tasse sui consumi (graduali, per aggiustare le preferenze, ma consistenti). Più tasse, ove possibile, sui patrimoni non come punizione per il possesso di un bene, come attacco alla proprietà, ma come controparte della riduzione fiscale nel momento del flusso reddituale. La possibilità, tra le altre cose, di affrontare attraverso la tassa sulle eredità il problema dei cosiddetti “asset rich, cash poor” che usufruiscono di assistenza e welfare (poiché, magari, disoccupati e poco liquidi) ma mantengono a lungo termine gli asset.

Cambio di paradigma su alcuni servizi (es. l’università) per le fasce più abbienti, rendendo il costo di queste una ulteriore controparte (meno inefficiente) della riduzione di tutte le aliquote IRPEF.

Infrastrutture e ricerca: libera circolazione di persone, merci e idee. Lo stato crei un ambiente favorevole, prima di tutto, all’avanzamento della tecnologia. Non serve arginare l’onda, ma cavalcarla.

Sostegno ai redditi (ma non reddito di cittadinanza): da potenziare e rendere strutturale, riorganizzando tutte le prestazioni sociali oggi variamente erogate. Semplificarle, aumentarle, renderle efficaci.

Tralascio l'analisi politica, quella segue il ragionamento pratico e culturale. E necessita di un dibattito che auspico acceso e ampio.