Pizzo racket

Le inquietanti notizie degli ultimi giorni ci raccontano di rinnovati attentati alla libera impresa da parte della Ndrangheta in Calabria. In un tessuto economico privato fragile, che punta sui servizi turistici, la criminalità organizzata, nel tentativo di strutturare un monopolio forzoso sulla movida estiva, interviene con fare violento ed intimidatorio per impedire la stipula di contratti e l’apertura di nuove aziende e per continuare a rivendicare l’infame diritto al pizzo, alla tassa del crimine.

Non solo, quindi, l’aggressione continua ad aziende sane “pesanti” come quelle, ad esempio, impegnate nel porto di Gioia Tauro e che coraggiosamente cercano di operare per far sì che questa grande infrastruttura non sia solo un crocevia internazionale per la cocaina: ormai anche le imprese artigianali sono coinvolte in dinamiche para-terroristiche naturalmente estranee al rischio di impresa e che affossano – più della crisi – ogni velleità di rinascita di uno dei tanti territori, progressivamente desertificati, del nostro Sud.

Lo stesso, invero, lo abbiamo visto all’opera ad Ostia; diversamente ma, purtroppo, nella stessa triste direzione di violenta interposizione tra domanda ed offerta di mercato, l’influenza nefasta della criminalità sulle imprese è emersa, nel corso degli ultimi anni, anche nel Nord Italia - con la rilevazione e la gestione “pompata” dalle necessità del riciclaggio di attività commerciali in crisi - ed addirittura nel Nord Europa con gli investimenti immobiliari dei clan soprattutto in Germania.

Ora, al di là delle pur importantissime ricadute di giustizia e delle implicazioni morali e personali che hanno coinvolto tante vittime innocenti di tali soprusi, il quadro generale su delineato individua il libero mercato come ulteriore vittima di mafia, quale cultura del merito e della concorrenza vissuta come alternativa e destabilizzante da un Potere che si pregia di “chiudere” e soffocare i territori con la rigida applicazione di regole arcaiche, con l’imposizione di confini di competenza, con balzelli simil corporativi e limiti imposti, con la forza, alla libertà di intrapresa e alla crescita individuale e sociale.

A questa chiusura imposta a forza di intimidazioni e kalashnikov si accompagna, in aggiunta, la pervicace ed infruttuosa presenza - nel nostro Sud - di un’economia pubblica fondata su trasferimenti poco trasparenti - magari “legittimati” dall’obiettivo di innalzare capannoni pseudo-produttivi (spesso made in Lombardia ed Emilia) - e sulla gestione clientelare di favori e posti di lavoro, in cambio di consenso e voti, da parte di potentati politici, vere e proprie consorterie spregiudicate dedite al trasformismo più becero.

La forbice nefasta, dunque, si chiude pericolosamente a tagliare le ali ad ogni afflato libero di vera cultura di mercato, impedendo l’accesso a fondi, al credito, all’interlocuzione pubblica garantita da criteri obiettivi a tutti quegli imprenditori – miracolosamente presenti, non si sa per quanto tempo ancora, pure alle nostre latitudini - che rivendicano orgogliosamente autonomia e chiedono rispetto per un’operosità finalizzata al giusto profitto; un profitto – che non è un furto ma, troppo spesso, è espropriato e spolpato - conquistato con la fatica, il risparmio, l’investimento produttivo che genera quell’ordine di mercato e quella libera organizzazione sociale che Adam Smith chiamò “Grande Società” e Karl Popper “Società Aperta”.

L’articolo 2082 del nostro codice civile liberale – un miracolo d’eccezione sfuggito, nel 1942, alla completa fascistizzazione del diritto – non definisce l’impresa in astratto ma, più concretamente, l’imprenditore, focalizzando l’attenzione normativa sulla libertà dell’individuo, sullo spirito e sulla carne viva coinvolti in un progetto – rischioso - sempre aperto sulla voragine tanto del successo che del fallimento.

E l’imprenditore è propriamente colui che organizza ed esercita – in libertà, appunto – un’attività finalizzata alla produzione e allo scambio e che realizza – anche se talvolta inintenzionalmente – una ricchezza reciproca, una ricchezza sociale.

Ed anche questo tipo umano è protagonista e vittima delle dinamiche del nostro Paese; protagonista e vittima di un’epopea ancora in fieri: l’artigiano in abiti da lavoro che lotta – con la sua vita e la sua opera – contro gli appetiti parassitari e tiranni di colletti bianchi e neri, contro le cravatte e i cravattari di Stato ed Antistato.