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I mercati, come c’era da aspettarsi, continuano a vedere nero sulle nostre banche. La scorsa settimana non è andata per niente bene e anche questa settimana è stata da dimenticare. L’effetto soporifero delle parole di Draghi è durato poco, nemmeno un paio di giorni ed è svanito dinanzi alla presa d’atto, definitiva a questo punto, che non siamo difronte a una lunatica, ingiustificata e passeggera sfiducia nei confronti dei nostri istituti. Il problema è più radicato nel nostro sistema. I mercati sono ormai ben consapevoli che per i crediti inesigibili la soluzione non sarà gestibile in modo facile né, soprattutto, indolore per gli istituti stessi e per i cittadini italiani, i quali saranno comunque chiamati a metterci del proprio. Se dovranno farlo come risparmiatori o come contribuenti, si vedrà.

Ad alimentare l’incertezza che ha portato a questa situazione è stata prima di tutto la snervante trattativa con Bruxelles condotta dal nostro governo. Inizialmente nel velato tentativo di ottenere il via libera su una ipotesi di bad bank (di fatto) pubblica, e successivamente, difronte all’evidente e attesa opposizione della Commissione, nel tentativo di strappare una concessione anche parziale sugli aiuti di stato alle banche sotto forma di garanzia statale. Una trattativa durata troppo.

Che ci fosse bisogno di una bad bank, in fondo, si sapeva. E non da ieri, perché il problema dei crediti inesigibili lo conoscevamo da molto tempo. Avremmo potuto fare la bad bank tempo fa, ricorrendo agli aiuti del fondo europeo di salvataggio come ha fatto la Spagna, ma non lo abbiamo fatto per evitare (questo, forse sì, saggiamente) il nostro commissariamento anticipato da parte della Troika. Dopo, però, il nostro governo ha indugiato troppo. La trattativa si è trasformata in un tira e molla: col passare del tempo è diventato via via più chiaro che, per noi, ottenere il permesso di apporre la “garanzia di stato” incondizionata ai crediti inesigibili, era una conditio sine qua non. Che era cruciale consentire alle banche di liberarsi degli NPL (Non Performing Loan) a prezzi convenienti senza doverli svalutare fino all’osso. Adesso, invece, con molta probabilità il trasferimento delle sofferenze avverrà a "prezzi di mercato” con perdite non trascurabili per i bilanci.

Le giornate nere per le banche italiane, in borsa, sono state temporaneamente interrotte dalle rituali rassicurazioni sulla solidità del nostro sistema creditizio, e soprattutto dopo l’intervento del presidente della BCE. In realtà si è trattato soltanto di un altro calcio al barattolo. Ora non piace l’ipotesi di tante bad bank "fatte in casa" versione “bricoleur”, quale è quella trapelata alla fine dei colloqui del ministro dell’economia con la Commissione. Il ministero dell’economia dice che la garanzia di stato c’è, ma che sarà a pagamento, a prezzo di mercato, e riguarderà soltanto i crediti migliori. Probabilmente si intende quelli già assistiti da garanzie reali e sui quali è possibile esprimere un rating “affidabile”. In poche parole, è come dire che la garanzia statale potrà essere apposta soltanto sui crediti che non ne hanno bisogno. È solo un escamotage, dunque. Che dovrebbe addolcire una pillola il cui sapore amaro è il seguente: da Bruxelles siamo tornati sconfitti. E niente più assicura che le cose andranno lisce.

Negli ultimi giorni sono spuntati altri indizi che non lasciano presagire nulla di buono. Prima di tutto la Banca d'Italia è uscita ufficialmente allo scoperto suggerendo di rinviare l’applicazione del meccanismo di bail-in. Lo ha fatto ricordando che esiste una clausola di revisione da invocare entro giugno del 2018, e che bisognerebbe farla valere al più presto. Presto, a questo punto, cosa può significare? Forse "prima che si arrivi allo show-down”? Se il sistema bancario è così solido e senza problemi, oltre una momentanea crisi di fiducia, che senso ha chiedere il rinvio e la revisione del bail-in deciso e votato regolarmente anche dall'Italia in sede Europea?

In secondo luogo è spuntata, quasi all’improvviso, l'ipotesi di fusione tra la Banca MPS e Bancoposta. MPS è la banca che obiettivamente, nonostante le continue rassicurazioni dei vertici e della politica, sta incontrando le maggiori difficoltà. È stata a pochi passi dal baratro non molto tempo fa, e nel giro di un anno, in termini di capitalizzazione di borsa, ha bruciato un valore pari quasi alla somma degli aumenti di capitale varati nel 2014 e nel 2015. Gli argomenti contrari a una ipotesi di fusione tra Bancoposta e MPS sono diversi: Bancoposta non è una vera e propria banca ma solo la divisione finanziaria di Poste Italiane, non eroga prestiti come una vera banca, fa solo attività di brokeraggio per conto di altri soggetti e intermediari finanziari. Si limita a investire in buoni del tesoro. La fusione con MPS, per Poste significherebbe ribaltare completamente il profilo strategico, oltre che quello normativo e fiscale dei rapporti con i propri correntisti e risparmiatori.

Prendere in considerazione, per MPS, un matrimonio con Poste, a dispetto di queste oggettive controindicazioni, la dice lunga tanto sulle condizioni dell’istituto quanto sulla ferma volontà di mantenerne il più possibile immutato l’assetto di controllo. Significa che probabilmente siamo proprio alle strette. Certo, non sarebbe la prima volta che Poste funge da "acquirente di ultima istanza". Lo ha fatto già con Alitalia, ma per importi di scala decisamente inferiore a quella che si profila nell'ipotesi del matrimonio di convenienza con MPS. Questa volta sarebbe veramente a rischio la quotazione della stessa società Poste. Sposare MPS e accollarsi tutte le sofferenze che si porta dietro potrebbe essere una mossa pericolosa per le migliaia di risparmiatori che hanno messo nei loro portafogli i titoli di Poste ritenendoli, non a torto, un investimento ancora sicuro. Il Ministero dell’economia e Poste Italiane hanno smentito ipotesi di accorpamento. Ma probabilmente il dossier riguardante l'ipotesi di integrazione è stato all’esame dei soggetti competenti ed è passato anche sul tavolo del governo. Banca MPS deve trovare il prima possibile un compratore generoso, e non se ne vedono molti in coda fuori alla porta, soprattutto se si tratta di sopravvalutarne troppo gli asset in sede di fusione.

In questi giorni, stranamente, non si sente parlare di fondazioni bancarie, e dei riflessi che la soluzione traumatica del problema sofferenze potrebbe avere proprio sugli assetti di controllo intorno ai quali ancora fa perno il nostro sistema bancario, basati su una geografia societaria consolidata dai provvedimenti normativi che accompagnarono la privatizzazione del nostro sistema bancario nei lontani anni '90.

La partita vera sta per aprirsi. I vecchi attori dello storico Risiko bancario italiano probabilmente non hanno più molte mosse a disposizione. La sensazione è che questa volta a condurre il gioco saranno altri. Il panorama bancario questa volta potrebbe veramente cambiare: alla fine della partita ci saranno meno banche, saranno più grandi e non saranno più nostre. Ma forse, nostre per davvero, non lo sono mai state.