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Lo scandalo Volkswagen negli ultimi giorni sta dominando la scena mondiale. Per raccontarla in breve, pare che la casa automobilistica tedesca abbia bypassato i controlli sui gas di scarico installando un software in grado di truccare i risultati dei test sulle auto vendute negli Stati Uniti (ma anche nel resto del mondo a questo punto si faranno i medesimi controlli). In pratica, un algoritmo inserito nella centralina dell'automobile è in grado di riconoscere se in corso un test sul veicolo. Ci riesce verosimilmente incrociando una serie di parametri ambientali a disposizione della centralina stessa: quando il veicolo è sotto esame il software gestisce l'alimentazione dell'auto in modo da ridurre le emissioni. Una volta fuori dalla modalità “test” le emissioni tornano normali. Cioè, stando alle accuse dell'EPA americana, tra 10 e 40 volte superiori a quelle accertate da un normale test sui gas di scarico.

La portata dello scandalo è enorme, visto che Volkswagen è il secondo gruppo automobilistico del mondo dopo Toyota. I tedeschi, a cui piace essere considerati i primi della classe per affidabilità, disciplina e precisione, hanno fatto una brutta figura, e l'immagine di solidità e credibilità di cui si vantano sempre ha subìto un duro colpo. Anche perché lo scandalo ferisce proprio quello di cui sono più orgogliosi: la manifattura, e in particolare la manifattura automobilistica. I più maturi tra noi ricorderanno sicuramente un vecchissimo spot pubblicitario, dove la casa tedesca difendeva la propria Golf paragonando la FIAT Tipo a una squallida fotocopia in bianco e nero.

Inutile dire che questo episodio ha toccato il classico “nervo scoperto” di chi non nutre simpatia per i tedeschi. Personalmente non condivido certe antipatie di fondo. Anche se talune reazioni impulsive da parte degli italiani posso arrivare a comprenderle: sempre i più maturi di noi, ricorderanno come fu trattato il nostro settore vitivinicolo ai tempi del famoso scandalo del metanolo, alla fine degli anni 80. Non avranno dimenticato che oltralpe non furono tanto teneri con noi, fecero di tutta l'erba un fascio e spararono a zero. Comunque non stiamo qua rivangare il passato. Peraltro in quell'occasione furono soprattutto i cugini francesi a girare il coltello nella ferita, più che i tedeschi.

Non è mancato nemmeno chi ha subito buttato “in politica” la vicenda Volkswagen, forzando conclusioni e considerazioni che esulano dall'episodio specifico per sconfinare in giudizi più generali, e generici. C'è chi tira in ballo il governo tedesco, i vincoli europei, e sostiene che quanto avvenuto è la prova che la tanto odiata austerity è solo un trucco, e che i tedeschi ce la imporrebbero perché fa comodo a loro. Ma anche su questo meglio lasciar stare, e passare ad aspetti un tantino più seri e rilevanti della questione.

Il primo a fare le spese dello scandalo è stato il titolo del gruppo Volkswagen in borsa. Lunedì ha perso il 20% in una sola seduta. E ha continuato a scendere anche nei giorni successivi. Fino a perdere circa il 30 percento del proprio valore. C'era da aspettarselo. I mercati in casi come questo hanno di che preoccuparsi. Prima di tutto c'è timore per la multa che verrà affibbiata dall'EPA. 18 miliardi di dollari forse è un importo esagerato, probabilmente Volkswagen sarà condannata a pagare meno, ma una multa salata ci sarà, questo è certo. Ma non sarà la fine del mondo, e comunque non sarà tale da spaventare il gigante tedesco, che oggi ha un fatturato annuo globale di circa 250 miliardi di dollari.

Poi ci sono le ricadute negative sulla domanda di automobili Volkswagen. Negli USA, dove la casa tedesca esporta circa il 6 per cento della produzione, le vendite sono state cautelativamente sospese proprio dall'azienda. E c'è il serio rischio che la certificazione ambientale venga ritirata finché l'azienda non procederà alla rettifica o alla rimozione dell'apparato incriminato. C'è da aspettarsi un calo delle vendite, dunque. Sicuramente negli Stati Uniti, e probabilmente anche nel resto del mondo, perché i riflessi negativi della vicenda sul marchio e sull'immagine non vanno certo trascurati. E poi anche altri paesi potrebbero ripetere le stesse verifiche fatte in California, e allora sarebbero guai veri. La perdita di ricavi potrebbe pesare un bel po'.

Infine, il punto più dolente sono gli investimenti necessari ad adeguare le auto agli standard di emissione previsti dalle normative, e il consistente aggravio di costi che comporterà. Sono costi che fino a oggi i produttori hanno evitato in un modo o nell'altro. In parte, si sa, lo hanno fatto convincendo i legislatori a procrastinare il più possibile la nuova normativa. Nel 2014, tutti i produttori europei di automobili hanno fortemente ostacolato l'introduzione dei nuovi limiti alle emissioni delle auto nel vecchio continente. Limiti decisamente più stringenti di quelli in vigore. La lobby dell'auto, alla testa della quale si erano messi proprio i tedeschi con tanto di appoggio politico da parte della cancelliera Merkel, è riuscita a farne slittare l'introduzione al 2020. In fondo era una normale azione di lobby che non faceva storcere il naso a nessuno, tanto è vero che adesso stanno chiedendo un ulteriore rinvio al 2025. Ma in parte, ed è questo a emergere con forza dallo scandalo, lo hanno fatto in modo non trasparente, cioè truccando i dati dei test sulle emissioni.

Se le cose stanno veramente così, quello che prima pareva un mero tentativo di risparmiare sui costi di produzione, magari con il pretesto di difendere i margini di profitto e l'occupazione, ora appare una questione decisamente più cruciale per i produttori di auto. L'incidente Volkswagen non tira in ballo solo gli equilibri di bilancio, i margini di profitto e l'occupazione di una azienda. Mette in discussione, invece, il futuro stesso dei motori auto e va a toccare l'assetto dell'intero settore mondiale dell'automotive.

Il motore a scoppio e il Protocollo di Kyoto non sono mai andati molto d'accordo. Il trattato sull'abbattimento delle emissioni di gas serra ha imposto ai produttori di automobili una sfida tecnologica imponente. Una sfida dettata soprattutto dalla rapida evoluzione del quadro normativo che ha introdotto vincoli e standard ambientali sempre più ambiziosi.

L'automotive fino a oggi è stata più che all'altezza di questa sfida. Far sopravvivere il motore a combustione interna nell'era post-Kyoto credo sia stato un risultato veramente eccezionale, anche se orientato a una strategia essenzialmente conservativa. L'incidente occorso a Volkswagen potrebbe essere un segnale importante in questo senso. Il segnale che per rendere compatibile il motore a combustione interna con limiti di emissione e standard ambientali sempre più stringenti si deve spendere troppo. I costi di adeguamento, nella realtà, potrebbero essere talmente elevati da minare la competitività delle auto benzina e diesel. Certo non tali da farle sparire dal mercato, ma comunque da metterne in discussione il primato in favore di quelle a motore elettrico o ibrido.

Non voglio dire che lo scandalo Volkswagen segna la fine dell'auto a combustione interna. Ma potrebbe essere ricordato come l'inizio di una nuova era. Quella dei motori elettrici e ibridi. E naturalmente a esserne avvantaggiati saranno quei produttori che da più tempo hanno investito nella produzione dei nuovi motori ibridi, acquisendone stabilmente la tecnologia, l'expertise, le conoscenze e i vantaggi competitivi che ne derivano. Primo tra tutti proprio Toyota. Era il lontano 1993 quando Uchiyamada, ingegnere oggi settantenne, progettò e realizzò per la Toyota il primo modello della Prius, la auto ibrida oggi più venduta al mondo. Toyota è l'avversario principale di Volkswagen.

Fino a oggi contro questo avversario i tedeschi si sono contesi il primato mondiale nella produzione di automobili. Ma già da domani potrebbe non essere più così. A meno che il mondo non voglia rimettere in discussione il protocollo di Kyoto, e questo pare molto poco probabile.

@amedpan