Per un superamento 'manzoniano' del combattentismo politico italiano
Diritto e libertà

S’ode a destra uno squillo di tromba: “Contro il sistema/la gioventù si scaglia/boia chi molla/è il grido di battaglia”. A sinistra risponde uno squillo: “I covi fascisti si chiudono col fuoco/con i fascisti dentro/ sennò è troppo poco”. D'ambo i lati calpesto rimbomba, Da cavalli e da fanti il terren.
Manzoni e la tragedia perenne di una guerra civile: allora veneziani contro milanesi, ma italiani contro italiani sempre.
Quei due motti da corteo, infatti, non venivano scanditi a Maclodio (provincia di Brescia) nel Quattrocento, ma in tutta Italia, una cinquantina d’anni fa.
Al tempo dei nonni, o dei padri, di molti giovani che oggi, forse, non sospettano quanto i loro passi siano gli stessi di generazioni fa; una, due o più (secondo il vezzo di contarne una ogni cinque anni, appiattiti sul contatore tecnologico).
Parole esagitate, feconde di dolore quanto sterili di intelligenza, di un agire politicamente attivo e non recitativo, o autocelebrativo.
Tutto, della corrente “opinione pubblica combattente”, mima quello che era già un mimo: una vasta evasione dalla realtà, una mascherata moltitudinaria, libresco-dopolavoristica, per giocare al “Grande Gioco”. Come no. Potevano mimare il mimo, perché continuavano a tenersi al riparo dall’unica, fondamentale, realtà: che questi “fronti” erano nati da un punto solo. Nel 1921 e nel 1922, due gruppi di ex militanti e iscritti al Partito Socialista, si erano dati a scuotere l’Italia e il Mondo. E non casualmente, in termini storici e politici, l’uno dopo l’altro.
Pensavano di porsi per la società italiana come ponti verso il Tempo Contemporaneo; ma presto rivelando una struttura essenzialmente paternalistica; e il Popolo, che si voleva dovesse cosí maturare, invece, fu tenuto fermo in una costante minorità: dove il fiabesco di qualità innate e ataviche, si mischiava al fiabesco di qualità “dialetticamente” silenti e finalmente ridestate (o “risvegliate”).
Questo perché l’origine comune era destinata a rimanere con loro, ad innervarne le piú intime fibre: nel metodo risolto in utopismo; nella cecità della violenza: con cui frullare ogni varietà non dicotomica di pensiero e di azione in un unico, informe, tritato palingenetico (“se non fai, allora sei…”).
Tutte le correnti parole forti (e solo ultime in ordine di tempo), su Gaza, sull’Ucraina, sulla politica interna, di oggi, di ieri e dell’altroieri; tutte le isterie verbalistiche e digitali, e anche vili, perché sciorinate al riparo da ogni rischio, ripropongono quel modello moralmente nefasto, politicamente infantile, socialmente canceroso. Nessun Santoro, nessun Travaglio, nessun “lasettismo”, nessun “retequattrismo”, sono di paternità incerta.
E si sa come finisce spesso col cancro, in Italia, e dappertutto, naturalmente: “I fratelli hanno ucciso i fratelli: questa orrenda novella vi do”.
Verrebbe da pensare che negli USA ci stiano solo copiando (le “dinamiche specifiche”, come piace dire, sono quelle di superficie, di rilievo cronachistico: i movimenti “tettonici” hanno più vasta estensione e reciproca familiarità).
Eppure, quella origine comune siamo ancora noi. Riponete ogni sarcasmo corrosivo e nichilistico: “Siam fratelli; siam stretti ad un patto: Maledetto colui che l'infrange; Che s'innalza sul fiacco che piange, Che contrista uno spirto immortal!”
Noi, in effetti: che siamo anche riusciti a vivere liberi, nutriti e al riparo da bombe, pur gravati da quella tabe. Ecco, noi dovremmo riassumere l’abito dei giorni migliori: quello della misura, dello studio rivolti ad uno scopo. Uno scopo di pace, dopo una responsabilità negoziata; e di una radicale, profonda e, questa sí, globale riforma rivolta al futuro: senza Big Ones della “connettività” a controllare ogni nostro neurone, palpito, sogno, ogni nostro spirto immortal (per uno Standard Oil Act internazionale, in versione “Piattaforme”, e moltiplicato per mille: affinché quelle che Mattarella ha perspicuamente definito “le nuove Compagnie delle Indie” , vengano condotte ad una condizione democratica).
Questo dobbiamo fare. Quale unico ma preziosissimo tributo, a chi in questo momento non ha misura, né studio, perché sotto le bombe. Quale unico e necessario itinerario, per situarci in una dimensione non silicon-dopaminica dell’agire sociale e politico. Quale unico veicolo, per emancipare le giovani generazioni da ipoteche interpretative e modelli di condotta minoranti.
Misura, studio, riforma. Finché non lo faremo, saremo solo dei chiacchieroni, e pure un pò cialtroni. Saremo disertori universali.






