carlo nordio grande

Se il buongiorno si vede dal mattino, la prima intervista del neo Guardasigilli Carlo Nordio a Liana Milella su Repubblica preannuncia un pessimo giorno. Quantomeno per chi pronosticava un cambio di passo e di impostazione in senso liberale e garantista in materia di giustizia dal nuovo governo presieduto da Giorgia Meloni.

Chi scrive non è particolarmente stupito perché già dalla lettura degli editoriali del quotidiano “Il Messaggero” era possibile scorgere i connotati tipici del sostanzialismo securitario del futuro inquilino di via Arenula che, tuttavia, ha goduto e tuttora gode di una apertura di credito - a mio avviso eccessivamente benevola - da parte di chi in passato ha criticato la cultura dell’emergenza che da decenni governa il settore. Quella cultura che, modificando di volta in volta i settori di attenzione (dal terrorismo alla mafia, dalla corruzione all’immigrazione), tende a sorvolare, ignorandoli, sui precetti costituzionali ed a ragionare con la pancia e con un occhio vigile al facile consenso.

La nostra Costituzione, è bene non dimenticarlo, è garantista (nel senso di attenta alla presunzione di non colpevolezza ed al giusto processo) ed è umanitaria nell’esecuzione della pena, vale a dire contraria ai trattamenti disumani e degradanti, obbligatoriamente tendente alla rieducazione del condannato. I due aspetti non sono scindibili, in quanto entrambi emanazione storica della concezione liberale e democratica del diritto inteso come limite all’arbitrio del potere, esecutivo, legislativo o giurisdizionale che sia.

Il testo dell’intervista di Nordio su Repubblica, al contrario, evidenzia come il neo ministro ritenga si possa rafforzare (per ora solo nelle intenzioni) la presunzione di non colpevolezza nel corso del processo affievolendo, in nome del nuovo dogma della “certezza della pena”, il significato e la pregnanza dei caratteri umanitari nella fase di esecuzione, grazie al sostegno dei sondaggi di opinione che incoraggiano scelte dettate da esigenze di sicurezza.
Certezza della pena che non viene intesa nel significato, ancora una volta democratico e liberale, di sottrazione all’arbitrio del potere (è ovvio che una pena dal termine finale incerto significherebbe possibilità di limitare in eterno la libertà) quanto nel senso, ben più allarmante, del carcere sino all’ultimo giorno come auspicabile garanzia di ordine e pubblica tranquillità.

Le norme “anti rave” sono certamente pessime: fatico a comprendere quale fosse la necessità e l’urgenza di introdurre per decreto pene spropositate per un nuovo reato che brilla per indeterminatezza, con una formulazione che disegna in forma di fattispecie di pericolo un puro divieto di assembramento, tanto più se l’ordinamento già prevede i divieti di invadere l’altrui proprietà e di spacciare sostanze stupefacenti.

Il peggio, se possibile, mi sembra, tuttavia, rinvenibile nella normativa riguardante l’ergastolo ostativo, che riguarda i condannati all’ergastolo per mafia o terrorismo che non abbiano collaborato con la giustizia: qui l’impronta panpenalista ed il substrato di pensiero autoritario mi sembra ancora più evidente, specie nella parte, rivendicata con orgoglio nell’intervista, che confonde il reato con il peccato e la delazione con la redenzione.

Tralascio i dettagli tecnici di una normativa in cui è disagevole il coordinamento sostanziale e processuale tra le disposizioni e pongo l’attenzione all’obbiettivo, che emerge con evidenza, di sterilizzare la nota sentenza della Corte Costituzionale che, da un lato, ha censurato la preclusione assoluta di accesso ai benefici (dai permessi premio alla liberazione condizionale) ai non collaboranti, concedendo, tuttavia, un termine (già in passato prorogato una volta ed oggi in scadenza all’8-11-2022) per una nuova legge ad opera del Parlamento.

Non si può omettere di ricordare che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza 15 aprile 2021 n.97, aveva accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo “ostativo” ma non l’aveva definitivamente dichiarata, concedendo al Parlamento un anno di tempo (poi prorogato sino al prossimo 8 novembre) per affrontare la materia ed elaborare una modifica delle disposizioni in materia esecutiva coerenti con le censure.

Censure della Corte che partivano da una premessa: anche il semplice ergastolo “ordinario” era stato sino ad allora salvato dal giudizio incostituzionalità (per incompatibilità della pena perpetua con la finalità rieducativa) proprio in virtù della previsione della liberazione condizionale perché – questo era il ragionamento della Consulta – la possibilità di accedere alla liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo (seppur dopo un periodo minimo di 26 anni di detenzione) garantisce per chiunque il diritto alla speranza. Al contrario, un ordinamento che non preveda la possibilità di sperare si pone in insanabile contrasto con il testo costituzionale e con le convenzioni europee dei diritti dell’uomo, che vietano la pena di morte classica così come la pena di morte civile.

La soluzione adottata dal nuovo governo con il decreto legge 162/2022 è stata quella di aggirare la tagliola della prevedibile dichiarazione di incostituzionalità (quella che sarebbe derivata da una nuova inadempienza del Parlamento alla scadenza dell’8 novembre) attraverso una disciplina che rende di fatto inesigibile (per impossibilità oggettiva di adempiere) l’accesso per i non collaboranti alla liberazione condizionale.

Il decreto legge 162/2022 prevede infatti all’articolo 1, comma 1, lettera a), n. 2), che i richiedenti misure alternative “non collaboranti” dovranno dimostrare “di avere adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, ovvero l’assoluta impossibilità di tale adempimento, e allegare specifici elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Non basta: l’onere di allegazione dovrà essere parametrato alle “circostanze personali e ambientali”, e “alle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”. Gli elementi specifici da allegare, inoltre, dovranno essere “diversi ed ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’associazione di eventuale appartenenza”.

Come si può agilmente notare, si tratta di una vera e propria “probatio diabolica”, la cui stesura appare finalizzata a garantire ossequio solo apparente alle prescrizioni della Corte Costituzionale, stravolgendo, in modo potenzialmente eversivo, i principi generali in materia di gerarchia delle fonti, magari sperando di guadagnare un ulteriore periodo di proroga in attesa della conversione del decreto in Parlamento.

Che tutto ciò sia stato rivendicato con orgoglio da Giorgia Meloni, che ha parlato in conferenza stampa a reti unificate di un “importante segnale di legalità antimafia” e dal neo Ministro Nordio, che ha sottolineato su Repubblica gli stessi concetti con gli stessi toni, appare una conferma di continuità nel segno della politica della giustizia volta al proclama più che ai principi, anche se di rango costituzionale.

Dai rave all’ergastolo ostativo, l’idea che trapela è quella di rassicurare l’opinione pubblica che chiede più carcere in modo non dissimile a quanto già visto in altri tempi con un ministro come Bonafede che indossava la divisa della Polizia Penitenziaria presenziando all’atterraggio in aeroporto di Cesare Battisti, latitante di lungo corso per reati di terrorismo.

Ciò che può cambiare, di volta in volta, è l’oggetto dell’emergenza: la corruzione, la mafia o il terrorismo. Resiste, tuttavia, anche con Nordio, nonostante la dichiarata professione di fede liberale, la prassi sostanzialista di chi utilizza il diritto penale per lanciare segnali sperando di guadagnare consenso, come se la giustizia fosse più un problema di percezione che di prudente bilanciamento tra principi.

Sperando di essere smentito nell’immediato futuro, se il buongiorno si vede dal mattino, il decreto antirave e antimafia preannuncia una stagione di politica della giustizia contrassegnata da un pericoloso doppio binario, con i colletti bianchi meritevoli di riguardo e garanzie e gli altri, sporchi e cattivi, per i quali è meglio buttare la chiave, con il rischio molto concreto che aumenti l’apprezzamento degli elettori. Lo vedremo presto ed un importante banco di prova sarà la verifica dell’approccio in tema di immigrazione.