Palazzo Chigi tricolore grande

Non sorprende che un popolo che non ha mai amato la libertà e piuttosto ha sempre scelto di avversarla o di rinunziarvi festosamente, e che quando ha preteso di rivoltarsi contro la propria storia illiberale l’ha fatto dividendosi in due fazioni analogamente illiberali, apparecchiando infine un sistema compromissorio che trattava la libertà come un ospite scomodo in un concilio di uguaglianza, di solidarietà, di utilità sociale, vale a dire i criteri puntualmente posti a ottundere l’effettività delle libertà individuali, di professione culturale, di carriera umana, di iniziativa economica, non sorprende che un popolo in tal modo proclive alla soluzione illiberale abbia accolto quasi con gioia, direi con foia, l’occasione di sottomettersi a questa maestosa prova di annullamento individuale che andiamo sperimentando ormai da quasi due anni.


Non era l’utilità - peraltro spesso discutibile - dei provvedimenti restrittivi a spiegare la brama diffusa a che essi fossero adottati e imposti: era l’orgasmo per la destituzione di un altro brano di criterio privato, era l’animo che si quietava nella pacificazione assicurata dal vincolo ugualitario e penitenziale che ci avrebbe fatto tutti migliori. E così non era risentita la portata oltraggiosa delle esibizioni ministeriali che minacciavano “norme sempre più ferree e stringenti” se fosse aumentato il numero dei cosiddetti irresponsabili, e semmai quelle intimazioni da sgherro passavano per giudiziose determinazioni del governante saggio costretto a fare i conti con una canaglia che comprometteva l’efficienza patriottica degli ottemperanti alle perfezioni del modello italiano (“un immenso gruppo popolare disciplinato e teso verso l'obiettivo”, scrisse qualcuno).


Ora che non c’è più nulla da vietare a tutti, si ripiega sulla persecuzione dei pochi che non si uniformano alla regola vaccinale: e, ancora una volta, non si tratta dell’ansia di fronte alla capacità contagiosa di quelle sparute minoranze, ma del fatto che esse insultano il bisogno di quiete totalitaria per cui occorre “fare tutto ciò che serve” per sconfiggere il virus, e pace se fare tutto semplicemente non si può, non si deve, come non si può e non si deve bruciare un campo coltivato per salvarlo dalle cavallette.
Possiamo anche fare finta che qui si tratti solo di imporre qualche supplemento di disciplina, giustificato dall’interesse superiore costituito dalla solita salute che viene prima di tutto. Ma è, appunto, una finzione, dietro cui persiste l’eterna incapacità italiana di fare i conti con la realtà: che è più forte e meno rassicurante a petto del paradiso vaccinale finalmente liberato dai renitenti.