'Una rosa è una rosa è una rosa'. Oppure no?
Diritto e libertà
Le recenti polemiche sul profilo di chi sta traducendo in Europa l’opera della poetessa afroamericana Amanda Gorman, così come quelle sull’uso dei DPCM per combattere la diffusione dei contagi in Italia, sono solo un riflesso di un problema generale, che potrebbe avere il nome di “doppiopesismo” o quello di “pregiudizio metodico”. È una questione che ha due aspetti, che vanno affrontati in modo disgiunto per poi tentare una sintesi finale: il primo aspetto riguarda chi comunica, il secondo chi riceve i messaggi.
Aprite un qualsiasi quotidiano, ascoltate un’edizione del giornale radio, di un tg o di una qualunque trasmissione tra le molte dedicate a ospitare politici di vario rango ed estrazione (per farne spettacolo, più che approfondimento o discussione civile); oppure scorrete semplicemente i social media come Twitter o Facebook. Tra la quantità di affermazioni che vengono emesse in ogni istante c’è una sola costante: l’esigenza di farsi riconoscere come autore di quella dichiarazione, di vedere il proprio nome, di ascoltare la propria voce, di ricevere delle reazioni o dei commenti.
Quello che in altri tempi sarebbe stato “metterci la faccia”, cioè prendersi la responsabilità di cosa si dice (che in democrazia è cosa ottima, giusta e necessaria), oggi è diventato l’estensione massima dei “quindici minuti di fama” che toccano a ciascuno di noi. Non c’è più alcun collegamento reale tra ciò che si dice e l’azione seguente (politica o meno), perché l’importante è dire qualcosa, comparire, ottenere un riscontro della propria esistenza: cosa si dice è passato in secondo piano al punto che nel giro di pochi giorni per la stessa persona è possibile sostenere posizioni opposte senza alcun imbarazzo. Al punto anzi che quando qualcuno si prende la briga di far notare la cosa viene considerato un provocatore, uno che non ha capito come si sta al mondo, un idealista privo di qualsiasi capacità tattica.
Veniamo alla seconda parte del problema: siamo noi, il pubblico a cui quelle dichiarazioni sono rivolte. L’informazione è uno dei tanti elementi chiave, in quella fragilissima e imperfetta costruzione umana che è la democrazia liberale: uno dei primi obiettivi di chi vuole svuotarne la sostanza è infatti il controllo dei mezzi di comunicazione. L’enorme possibilità offerta dalla rete di informarsi però sembra aver prodotto un cortocircuito che già Umberto Eco aveva notato: nella vastità di fonti, non essendo in grado né avendo il tempo di selezionarle e verificarle in modo critico, quello che si ottiene è la massima disinformazione. E in questo oceano di disinformazione, uno degli ancoraggi più facili e solidi consiste nel classificare il contenuto del messaggio non a seconda di ciò che contiene, ma a seconda di chi lo emette.
Se una persona che detestiamo dice (solo un esempio, tra migliaia che potremmo fare) che “bisogna chiudere le scuole per evitare il diffondersi dei contagi”, cosa pensiamo? Stupidaggini, le scuole devono rimanere aperte perché sono sicure, serve investire ancora di più sulle nuove generazioni, i ragazzi hanno bisogno di socialità; ma se la stessa frase la dice una persona che stimiamo, e di cui volentieri rilanciamo le dichiarazioni sui social, siamo sicuramente in grado di trovare almeno un paio di giustificazioni di cui siamo sinceramente convinti. I “ristori” aumentano il debito pubblico e non aiutano a selezionare le aziende sane da quelle che stiamo semplicemente sussidiando? Fino a gennaio sicuramente sì, adesso sembra un problema meno sentito, così come la richiesta di accedere al MES: che probabilmente darebbe una mano ai mezzi disponibili per la campagna vaccinale, ma chi lo chiedeva a gran voce fino a dicembre sembra essersi dimenticato della sua esistenza. Il messaggio su certi argomenti può essere identico, ma il modo in cui reagiamo dipende dal fatto che sappiamo già chi lo ha pronunciato. E il guaio è che effettivamente entrambe le reazioni hanno quasi sempre delle giustificazioni reali, perché esistono aspetti controversi su quasi tutte le decisioni, ed è legittimo prediligere una lettura rispetto a un’altra: meno legittimo scegliere la lettura secondo chi ha parlato.
Per tornare all’opera di Amanda Gorman, da tradurre in varie lingue europee: conta davvero chi sia a scegliere le parole di questa poetessa in un’altra lingua, che si tratti di tedesco, italiano o greco? È importante se sia una donna, un uomo, la sua età, il colore della sua pelle? Conta (o non conta) se qualcuno è andato in Arabia Saudita, ma non conta (o conta) se qualcun altro è andato a Mosca o a Pechino? A mio parere, conta moltissimo se anche in questo caso si pensa che chi sia più importante di cosa. Pregiudizio metodico, appunto: una giovane donna afroamericana non può (o non deve) essere tradotto da un vecchio maschio caucasico; un esponente di quel partito non può aver ragione, nemmeno se pensa le stesse cose dell’esponente del mio partito (o se le pensa, conferma che è il mio partito ad avere ragione, e lui ne prende atto); “una rosa è una rosa è una rosa” ma forse no, dipende da cosa penso di chi lo dice. È il trasferimento di una cultura politica tribale nella modernità delle democrazie liberali, in cui l’appartenenza a uno schieramento prevale su qualsiasi altra considerazione.
Qual è una soluzione possibile? L’unica che forse ha senso proporre è quella (impraticabile) di sostituire “i quindici minuti di celebrità” con “cinque minuti di oscurità”: separare nettamente i messaggi da chi li ha pronunciati, oscurare la provenienza di un tweet o di un post, camuffare la voce di chi parla in tivù e tenerlo dietro un paravento, come si fa con i pentiti di mafia in tribunale. In fondo vale sempre, soprattutto per chi si richiama all’importanza delle idee liberali, “la grande regola del pensiero illuminista” di portare ogni cosa umana “dinanzi al tribunale della ragione”: sono le parole che Altiero Spinelli usa nella propria autobiografia per descrivere il rigore di Ernesto Rossi, e la lezione democratica forse più importante che ha tratto dal suo esempio.
Fare in modo insomma che chi ascolta debba fare lo sforzo di concentrarsi sui contenuti, valutandoli per ciò che sono invece che pesandoli secondo chi li ha proposti. Poi, dopo i cinque minuti di oscurità, chi ha parlato ci potrà “mettere la faccia”; e chi ha ascoltato scoprire quante baggianate vengano dette, quante scelte sbagliate vengano prese, e da chi. Le sorprese non mancherebbero di sicuro.