bernini apollo e dafne big

Facciamo una premessa per evitare di incorrere nel vittimismo: la “dittatura del politicamente corretto”, in termini positivi, non esiste. Quando ne parliamo, parliamo semplicemente di una “tendenza” che diversi esponenti della cultura e dell’intrattenimento (aziende, singoli opinionisti, istituzioni scolastiche e universitarie) adottano nel loro ambito di appartenenza, tendenza di natura politica: si selezionano alcuni argomenti e prodotti artistici, e non altri, per perseguire politiche tese alla correzione di storture della società quali razzismo, omofobia, misoginia eccetera.

Se tale tendenza è del tutto legittima, è anche tuttavia legittimamente criticabile nel momento in cui la selezione adottata dagli operatori (aziende, singoli opinionisti, istituzioni scolastiche e universitarie) implica la rimozione, nell’ambito della propria offerta, di opere artistiche del passato, ritenute pericolose o dannose per il fruitore, membro del corpo sociale.

Se ci interessiamo, pur senza costanza, alle tendenze culturali “progressiste” della società, ci sarà capitato di venire a contatto con diverse proposte che, in questo periodo di proteste, si ripropongono con particolare virulenza: si discute in questi giorni della rimozione delle statue di personaggi controversi del passato, per quanto lontano (il mercante di schiavi Colston morì nel 1722) o degni di alti meriti nella storia recente, pur rimanendo convintamente razzisti (come Winston Churchill o Indro Montanelli); e della rimozione, da parte di un colosso della distribuzione, di un vecchio film in cui i neri compaiono per ciò che purtroppo sono stati – schiavi. Ma chiunque si interessi al dibattito sul politicamente corretto sa che senza difficoltà, cercandole, troveremmo proposte correttive da parte degli operatori culturali, volte a utilizzare lo strumento censorio in ogni ambito del sapere: in Italia, ad esempio, è stata proposta a più riprese la rimozione delle opere di Dante dai programmi scolastici, perché il fiorentino era omofobo e intollerante; l’università di Oxford discute da anni del gender-gap nello studio di Omero, Virgilio e Shakespeare, misogini, la cui presenza comincia a essere minimizzata nei programmi di letteratura, con opportuna segnalazione degli stereotipi di genere così frequenti nelle loro opere: la prima cosa importante da sapere, quando seguiamo Ettore alle porte Scee, è che l’infelice Andromaca è complice del patriarcato. Si è discusso della rimozione della statua di Apollo e Dafne dalla Galleria Borghese, o di un bollino rosso da apporvi, perché rappresenterebbe un tentativo di stupro – e nient’altro.

Mi è capitato negli anni di sentire queste proposte, di leggerne, e di discuterne con diversi sostenitori, e mi è anche capitato di cercare di temperare gli strali reazionari degli oppositori ad esse, à la Giulio Meotti, per intenderci. E se, da un lato, non apprezzo le invettive degli apocalittici di maniera, dall’altro mi pare un po’ ipocrita eludere del tutto il problema della censura del politicamente corretto, che investe diversi ambiti del sapere e dell’arte, e che rischia di coinvolgere in modo sempre più significativo le istituzioni educative. Come è noto, i fenomeni culturali procedono non solo e non tanto attraverso il decisore pubblico: molto più spesso, e giustamente, il decisore pubblico recepisce e adotta le tendenze dirimenti del mondo culturale e del corpo sociale “condizionato” dagli operatori della cultura, valutando gli obiettivi che essi propugnano. Obiettivi senz’altro condivisibili per un decisore pubblico, nel caso delle istanze politicamente corrette: non potremmo che dichiararci d’accordo con chiunque lotti contro il razzismo, contro l’omofobia, o contro la misoginia istituzionale di alcuni significativi corpi della società occidentale. Lotta, tuttavia, che potrebbe benissimo (anzi, meglio) essere perseguita tenacemente senza l’utilizzo di strumenti censori né di rimozione alcuna da parte degli operatori culturali.

Le proposte censorie, infatti, pur volte al bene, sono il frutto di una sottile convinzione antiumanistica ben radicata nella nostra generazione, figlia dell'egemonia culturale totalitaria del comunismo, da un lato, e del positivismo progressista, dall'altro: due facce (la prima intellettuale e continentale, la seconda empirica e anglosassone) della stessa medaglia, il cui fattore comune è l'assoluta sfiducia nella libertà personale dei singoli.
Secondo questa tendenza, l'educazione è sociale, e il bene è la stabilità della società: un'educazione progressiva, quindi, non dovrebbe avvenire per ciascuno attraverso un'accumulazione di conoscenza - che include l'assorbimento e la contestualizzazione di opere e biografie dei nostri antenati razzisti e, al contempo, grandi uomini e autori superbi. L’educazione non si dovrebbe impartire usando, quindi, per le scienze non-STEM, un criterio storico. La storia, con tutti i suoi corollari, non viene minimamente considerata come uno strumento da potenziare ai fini educativi: storia, che pure comprende in sé ogni altra disciplina. La letteratura, le arti, i monumenti, individuati attraverso la lente storica, parlano sempre nel modo più profondo, perché intervengono sull'immaginazione del discente (cruciale facoltà dell'intelligenza) stimolandone nello stesso tempo la capacità critica. Siamo in grado di piangere con Priamo, pur avendo orrore del modo con cui tratta Ecuba, grazie alla nostra immaginazione; la consapevolezza della distanza temporale tra noi e Priamo ci insegna a valutare la differenza del nostro sistema di valori, frutto di millenni, mentre la compassione che nonostante tutto proviamo per lui ci porta a indagare la cifra di umanità comune a noi e al barbaro del passato e, analogamente, comune a noi e a uomini di diverse culture con cui veniamo quotidianamente in contatto; è attraverso questi sforzi di immaginazione che si acquisisce una vita intima tale da poterci dire, con tutti i limiti del caso, “persone libere”.

No, dicevamo: un'educazione progressiva efficace, secondo alcuni operatori culturali politicamente corretti, si impartisce più rapidamente attraverso un'iniezione di stimoli e di abitudini: se non vedremo Via col Vento, nel quale compaiono Mamy, Pork e Big Sam che sono schiavi e ritengono normale la loro convinzione, le nostre attitudini antirazziste saranno spontanee e inappellabili. Perché costringerci a vedere la quotidianità della schiavitù, quindi a conoscere la storia, perché solleticare la nostra immaginazione, farci pensare, insomma puntare sulla nostra libertà di singolo, nella lotta per un mondo migliore? È molto più rapido ed efficiente educarci con la censura, oppure concederci di vedere il film tagliato con opportune segnalazioni delle sezioni “razziste”, riducendo obbligatoriamente il nostro giudizio a essere appiattito su un solo criterio. Mentre, per la verità, chiunque abbia visto e letto Via col Vento sa che Mamy è ben più di una schiava negra. Se non sentiremo mai Ettore dire ad Andromaca "va', torna alle tue opere, al fuso, noi difenderemo le torri di Ilio", non potremo mai immaginare una differenza di ruoli tra noi e il nostro prossimo di diverso genere; se non vedremo in “Salvate il soldato Ryan” tutta quella immensa massa di uomini che per ore e ore combattono senza che alcuna donna compaia sullo schermo, non ci verrà mai in mente che l'esercito e la guerra per millenni possano essere stati un affare di soli uomini, e che per millenni le donne li abbiano attesi trepidanti dal fronte, che su questo strazio siano state scritte alcune tra le più belle poesie della storia dell'umanità.

"La storia è tutta una sciocchezza", scrive Aldous Huxley nel suo immaginario "Mondo nuovo", dove il positivismo progressista è già avanzato al punto di "risparmiare" ai cittadini il primo germe di libertà individuale problematica e contraddittoria, il rapporto madre-figlio. Ma basterebbe rivedere “La scuola delle mogli” di Moliére, per comprendere quanto sia illusoria la convinzione di riformulare ex novo un intero nucleo sociale puntando sul candore dei suoi membri, sulla loro ingenuità e sui condizionamenti esclusivi di un’unica autorevole “verità” morale.

Siamo proprio sicuri che non sia la storia, e non la sua negazione, la chiave da potenziare per formare esseri umani più capaci di lottare per la dignità e la libertà di tutti? Siamo sicuri che il potenziamento degli insegnamenti di logica e di scienze, di cui c’è così drammaticamente bisogno nella nostra scuola e nelle nostre università, non passi anche attraverso il potenziamento degli strumenti critici che permettano di contestualizzare il più possibile di tutto ciò che è stato scritto, edificato e dipinto nei secoli, che non attraverso una sciocca selezione di pochi stralci “puri”?
Niente di buono, niente, mai, verrà fuori dalla censura e da una riscrittura ideologica della storia, senza evoluzione, senza peccati, senza le sue eterne contraddizioni, senza un solo protagonista che sia veramente umano.