Non solo Hong Kong, Taiwan e Sikkim. Anche il Ladakh nel mirino della Cina
Diritto e libertà
Pochi forse hanno notato che dall’inizio di maggio gli eserciti di India e Cina si confrontano su di una frontiera – quella himalayana – che nessuno dei due paesi ha mai riconosciuto.
Eppure, quanto sta accadendo sul lago di Pangong e nella valle di Galwan, nella regione del Ladakh, è importante perché a tutti gli effetti è un contrasto fra due potenze nucleari che negli ultimi anni non hanno avuto rapporti semplici e poi perché si aggiunge ad altri fronti che la Cina ha aperto o riaperto in questi giorni: Hong Kong, Taiwan e il Sikkim indiano. Guardare all’intero quadro può dare un’indicazione di cosa sia cambiato nella strategia di Pechino e fin dove la Cina sia disposta a spingersi in questa inedita postura assertiva dell’era post COVID.
Già da anni l’esercito cinese e quello indiano erano occupati a rafforzare le proprie infrastrutture lungo la Line of Actual Control, il confine de facto che separa la regione indiana del Ladakh dal Tibet controllato dalla Cina. Alla cementificazione di un confine che non è altro che la risultante dell’annessione nel 1962 dell’Aksai Chin da parte della Repubblica Popolare Cinese, era seguito un fitto scambio di accuse, con un peggioramento delle relazioni, sia diplomatiche che sul campo. Ma il 5 maggio scorso un’incursione di militari cinesi ad ovest della propria zona di controllo ha provocato una prima serie di scontri e un numero indeterminato di feriti.
Non ci sono al momento cifre precise. Non ci sono neppure giornalisti o osservatori in zona, per di più, la rete telefonica è stata inattivata per ragioni di sicurezza.
Le incursioni cinesi in quest’area non sono una novità. A novembre 2019 Shripad Naik, Ministro indiano della Difesa, relazionando al Parlamento, ha parlato di 273 incursioni cinesi nel 2016, 426 nel 2017 e 326 nel 2018. Per la maggior parte, i casi sono stati risolti localmente e solo di rado hanno raggiunta i media nazionali o internazionali. Ma in un paio di occasioni, l’ultima nel 2017, il confronto è stato più serio, la tensione fra i due eserciti è salita oltre la soglia tollerabile per una soluzione locale e la fine dello stallo è arrivata solo dopo mesi e solo grazie a negoziati fra le rispettive diplomazie nazionali.
Ma perché questa ricorrenza impressionante di sconfinamenti proprio in questa zona così desolata?
Il lago di Pangong e la valle di Galwan, che si trovano nel cuore dell’Himalaya ad un’altitudine di circa 4300 metri, sono una delle porte dell’India. Si tratta di una zona di per sé importante dal punto di vista strategico. Poco più in la passa l’Indo, che nasce in Tibet e sfocia in Pakistan, ma nel suo tratto indiano viene sfruttato sia per l’agricoltura che per la produzione idroelettrica. La gestione delle acque dell’Indo è la seconda causa di scontro fra India e Pakistan - la prima è il Kashmir. Non parliamo poi delle risorse minerarie, che la Cina sfrutta da decenni in Tibet e che nel gemello Ladakh rimangono largamente inesplorate. E poi c’è la posizione, naturalmente. Il Ladakh per millenni è stato uno dei centri nevralgici del commercio asiatico, e sul suo territorio passava un ramo dell’antica via della seta (quella originale).
Non stupisce che già nel 1962 l’esercito cinese, che solo tre anni prima aveva definitivamente occupato il Tibet, tentasse anche di entrare in questo scampolo d’India. Lo fece con un attacco a sorpresa, come oggi in diversi punti, fra cui sul lago di Pangong, e ottenne un vantaggio strategico e numerico enorme. In poche parole, l’India era impreparata e la Cina sul terreno aveva già vinto.
Fu forse solo grazie all’intervento di JFK (pur occupato dalla crisi dei missili a Cuba) e dei messaggi che mandò al Chairman Mao, che la RPC dichiarò un cessate il fuoco unilaterale. Quella volta Mao si “accontentò” degli oltre 37.000 chilometri quadrati del Aksai Chin, avanzando di 320 km il proprio confine occidentale, ma si fermò alle porte del Ladakh. Oggi le condizioni sono molto diverse.
Innanzitutto per l’entità delle forze coinvolte. E questo è il dato importante. La disfatta del ’62 è rimasta ben incisa nella memoria nazionale indiana, e il Capo di Stato maggiore dell’esercito indiano che pochi giorni fa ha visitato la zona ha assicurato che l’escalation “procede a specchio” – leggi: “questa volta gli eserciti saranno alla pari”.
E poi c’è il comportamento delle truppe cinesi. Dopo la guerra del 1962, gli sconfinamenti sembravano fine a sé stessi, una provocazione continua, uno stillicidio forse per verificare il livello di attenzione dell’altra parte. Ma questa volta i soldati cinesi non se ne vanno, anzi sembrano acquartierarsi. Scavano bunker, piantano tende in una parte della Line of Actual Control che, è vero, nessuno dei due stati ha mai riconosciuto, ma che era convenuto fosse zona di pattugliamento indiano. Perché negli anni, dal 1993 al 2013, Cina e India non sono mai arrivate a una soluzione permanente, ma un accordo sulla gestione del confine c’è stato, anzi, ce ne sono stati 5.
In terzo luogo, nel 1962 a guidare gli Stati Uniti c’era J. F. Kennedy, ora a capo della ex prima potenza mondiale c’è Donald Trump. Quando, un paio di giorni fa, The Donald ha offerto di mediare la disputa, il governo indiano ha risposto “grazie facciamo da soli”. Quello cinese invece ha ricordato che secondo A Very Stable Genious, un libro recentemente pubblicato dal Washington Post, Trump non sarebbe stato neppure a conoscenza del fatto che Cina e India un confine lo condividono.
Ultimo dato, il Pakistan. L’avvicinamento fra Cina e Pakistan è cosa nota. È andato di pari passo con la costruzione del China–Pakistan Economic Corridor, inaugurato nell’aprile 2015. Parte della Belt and Road Initiative, il faraonico progetto infrastrutturale collega la regione cinese dello Xinjang con il porto pakistano di Gwadar, sull’Oceano indiano. Grazie alla nuova rete di trasporti e al controllo di Gwadar, Pechino ha dimezzato i tempi di percorrenza verso l’area del Golfo, e con la distanza, ha dimezzato anche il costo del trasporto delle merci e soprattutto del petrolio. Per la Cina un risparmio enorme, senza contare i vantaggi strategici. La nuova via è molto più protetta da interferenze americane, rispetto a quella precedente.
In molti hanno invece messo in dubbio il fatto che il corridoio fosse un affare per il Pakistan, che prima ha visto il debito pubblico lievitare per ripagare gli investimenti infrastrutturali e poi ha dovuto constatare che la propria sovranità era stata fortemente limitata. Incidentalmente, nella Belt and Road Initiative, invece l’India non ha mai voluto entrarci e ora sono pochi i chilometri che dividono il Tibet cinese dal Corridoio Economico Cino-Pakistano e sono tutti in territorio indiano, per lo più disputato.
Ringrazio Olivier Dupuis per la lettura attenta e gli utili suggerimenti