Once upon a virus. In Italia dilaga la pandemia politica cinese
Diritto e libertà
“Once upon a virus” il titolo di un video satirico pubblicato da Xinhua News, agenzia stampa ufficiale del regime cinese, e rilanciato dai profili social di varie ambasciate cinesi nel mondo. “C’era una volta un virus”: il video rappresenta a mo’ di lego (con voci acute e da cartoni) i cinesi e gli americani che si contrappongono in una diatriba sulla gestione del virus. Gli Stati Uniti, che sono rappresentati da una Statua della Libertà formato lego, appaiono capricciosi ed infantili. La Cina sgrida gli americani che si mostrano puerili, incoerenti ed inconcludenti reiterando la polemica americana con l’OMS. Allo stesso tempo si evidenzia quanto siano responsabili, ligi ai consigli della scienza e ferrei nel rispettare le regole i cinesi, mentre l’America strepita sregolatamente “human rights!” ogni volta che si parla di lockdown.
Questo è uno dei subdoli modi di screditare il metodo democratico tutto, modi che alla Cina non sono nuovi: fare querimonie su violazioni di diritti umani, celiano e ridono le autorità di Pechino, in un momento come questo è una frivolezza dissennata. La strategia cinese viene mostrata come efficace ed imprescindibile, e forse unica via.
Nonostante Trump abbia mostrato sì una desolante incompetenza ed inconcludenza nella gestione dell’epidemia, le democrazie dell’Oriente si sono, invece, dimostrate vincenti e proprio in tali Paesi, come riporta Foreign Policy, il tasso di gradimento verso la Cina è calato ai minimi storici. Purtroppo, al contrario, in Italia si è ultimamente flirtato troppo con il regime cinese. L’Italia non ha unicamente accettato forniture cinesi (pagandole), ma ha iniziato, tramite la sua televisione pubblica, e altri vari mezzi di comunicazione, a fare interminabili peana degli aiuti cinesi e del modello cinese al coronavirus. In questo modo abbiamo dato un accesso strategico in materia di propaganda alla narrazione cinese, rendendole più facile penetrare l’opinione pubblica italiana ed è preoccupante notare ora che il tasso di gradimento per la Cina in Italia è alle stelle. La pressione cinese si è, tuttavia, fatta sentire, come ha denunciato il New York Times, anche sull’Unione Europea che in un rapporto sulla disinformazione è stata convinta a moderare i toni riguardo alcune denunce che aveva rivolto alla Cina.
La Cina pare che ora abbia avidamente colto l’occasione dell’epidemia per screditare definitivamente l'"obsoleto" metodo democratico, per celebrarsi come paese efficiente e pratico: il regime comunista sembra voler mettere in cattiva luce le lungaggini del parlamentarismo e le garanzie dello Stato di diritto come indugi poco pratici e ritardanti nel contrasto ad un’epidemia. Dopo aver tentato di rendere, negli scorsi anni, la “meritocrazia” cinese agli occhi degli Occidentali un sistema politico consono alla cultura cinese che era insensato, e culturalmente scorretto criticare, la Cina ora pare sia definitivamente entrata in una fase aggressiva (come già era stato proclamato nell’annuncio alla quinta modernizzazione del Paese).
Attualmente l’Occidente - che non riesce più a capire le linee che dividono scienza, politica, tecnica e democrazia e che, spaventato, è alla ricerca di autorità da seguire ciecamente, che sente un richiamo a un antico tribalismo autoritario - è particolarmente vulnerabile al canto ammaliante delle sirene di Pechino.
La Cina, in questo fertile contesto, tenta di dipingersi come una “normale” ed efficiente meritocrazia autoritaria che ha semplicemente fatto tutto ciò che era necessario fare per contrastare l’epidemia ( le violazioni di diritti umani, se non inesistenti, sono state proporzionali e necessarie), che ora sta munificamente aiutando gli altri Paesi in difficoltà e che sta responsabilmente favorendo la cooperazione fra nazioni ed il multilateralismo, seguendo le indicazioni di scienziati e di esperti internazionali. L’appello all’autorità e l’abiura della politica che scarica con referenza tutte le sue responsabilità sulla scienza sta diventando un possibile cavallo di Troia attraverso cui la Cina potrebbe tentare di autolegittimarsi come una “meritocrazia” dal sistema invidiabile ed esportabile.
Alla rappresentazione di una democrazia isterica ed incapace di affrontare seriamente la pandemia concorre certamente la gestione di Trump: la democrazia americana può così essere denigrata dalla Cina in un paragone propagandistico e distorto che porta ad esaltare ancora di più l’“efficienza” dell’autoritarismo cinese. La verità è, naturalmente un’altra: in una democrazia la pandemia non sarebbe stata nascosta dalle autorità all’inizio della sua diffusione, i medici che ne denunciavano i primi segni non sarebbero stati zittiti, e anche questo avrebbe potuto forse avere una diversa influenza sulla propagazione del virus.
Il rinnovamento dell’immagine internazionale della Cina, tuttavia, va ormai oltre: in un mondo al contrario il regime di Pechino si mostra, ora, anche come custode avveduto del multilateralismo. A seguito dell’annuncio di Trump di cessazione dei finanziamenti statunitensi all’Oms, la Cina ha invece evidenziato come la repubblica popolare continui a finanziare e a credere nell’Oms. Mentre la realtà è, ancora, un po’ diversa: nel 2018 (ad esempio) gli Stati Uniti erano il principale finanziatore dell’Oms, seguiti da Bill Gates, dal Regno Unito e dalla Germania, la Cina donava meno di Svezia, Norvegia e Australia. Nonostante la verità sembra essere un’altra, la Cina si rappresenta ora come una grande sostenitrice dell’Oms in contrasto con gli Stati Uniti.
Naturalmente anche l’atteggiamento di Tedros Adhanom non è stato di aiuto: spesso le sue dichiarazioni sono state distorte e alterate dalla Cina perché fossero interpretate come elogi del modello cinese, come anche l’atteggiamento dell’Oms nei confronti di Taiwan. Dopo gli attacchi di Trump, Adhanom ha iniziato a twittare parole come “Solidarity”, “Stronger Together”, “Love” e una serie di singoli vocaboli del genere, come se fosse una quindicenne che vuole lanciare messaggi e frecciatine non troppo criptici all’ex che l’ha lasciata.
La stampa americana, a partire dai repubblicani “The Wall Street Journal” e “National Review” per arrivare ai democratici “Politico” e “The Nation”, ha aspramente criticato il lavoro di Adhanom e dell’Oms all’inizio dell’epidemia, con particolare riferimento alla controversia con Taiwan. Recentemente gli Sati Uniti hanno nuovamente richiesto che Taiwan possa far parte dell’Oms (considerato anche il fatto che Taiwan per prima aveva dato l’allarme - ignorato dall’Oms - sulla trasmissione uomo/uomo del virus), ma l’Oms, come conseguenza, ha sgridato gli Stati Uniti perché non interferiscano negli affari interni cinesi.
La decisione di Trump di tagliare i fondi all’Oms è stata poco assennata anche perché ha avuto come principale conseguenza di radicalizzazione ulteriormente la polemica con l’Oms riguardo la Cina e di spingere tale agenzia dell’Onu sempre di più nelle braccia del regime di Pechino. Ora la Cina può anche rappresentarsi come superpotenza munifica e liberale nei confronti dell’Oms, in contrasto all’avido e noncurante “impero del male” statunitense, quando la verità sulle donazioni è stata per anni tutt’altra. L’abbandono definitivo da parte degli Stati Uniti di una dottrina, potremmo dire, “wilsoniana” e il conseguente loro disinteresse nelle organizzazioni internazionali è un’ottima notizia per Pechino.
Come notava Foreign Policy già a settembre, pare che la Cina stia strategicamente occupando alcune delle più importanti agenzie dell’Onu: un cinese è a capo dell’ICAO, dell’UNIDO, dell’ITU e soprattutto della FAO (nessun altro Paese è a capo di un numero così alto di agenzie dell’Onu); molti analisti suggeriscono che la Cina potrebbe sfruttare il suo ruolo in queste agenzie (soprattutto per quanto riguardo la FAO), ed ora anche la sua influenza sull’Oms, per accrescere la sua potenza in numerosi Paesi africani ed asiatici anche tramite l’amministrazione dei fondi di tali agenzie, per costruirsi una più consistente rete di Paesi satellite da rendere strettamente da essa dipendenti. Ora che gli Stati Uniti sembrano abiurare il multilateralismo, assistiamo allo spettacolo incredibile di un Paese dapprima “chiuso” che diventa il leader mondiale del multilateralismo.
Ciò dovrebbe portare a una riflessione sul funzionamento delle organizzazioni internazionali (in materia sia di disclosure delle informazioni che di governance) quando Paesi autoritari ne occupano gran parte dei posti di prestigio. L’America si era già ritirata dall’Human rights council dell’Onu per l’influentissima presenza di dittature oppressive (basti dire che attualmente ne fa parte il Venezuela e che in passato ne hanno fatto parte Arabia Saudita e Cina) e per un’ossessione patologica dell’organismo contro Israele: ciò non ha aiutato a rendere tale organo dell’ONU più attento ai diritti umani, anzi esso è stato, di fatto, totalmente colonizzato da dittature che continuano ad evitare accuratamente che azioni serie per la protezione dei diritti umani in determinati Paesi vengano prese. Il multilateralismo, potremmo dire, dovrebbe essere ritarato e riprogrammato per far fronte all’occupazione aggressiva da parte di regimi autoritari delle organizzazioni internazionali. Pare che la Cina stia iniziando a rivolgere le istituzioni internazionali, che molti sostenevano fossero state create ad unico uso degli Stati Uniti, contro di essi, che però invece di usare con sforzo la propria influenza per cambiare l’assetto di tali istituzioni internazionali se ne ritirano, lasciando a Pechino ancora di più campo libero.
In tutto questo l’Europa è priva di una politica estera comune efficiente ed è sorprendentemente vulnerabile alla propaganda e ai tentativi di infiltrazione cinese; come già detto, l’Italia è il ventre debole tramite cui la Cina sta ora tentando di esportare il suo modello politico anche nel Vecchio Continente. L’Europa non ha voluto alzare la voce contro la disinformazione cinese sul coronavirus: ciò naturalmente è, con ampia probabilità, successo sia perché l’Europa è debole dal punto di vista diplomatico sia perché è “un verme militare”, come diceva Catalin Rolea.
“Are we in a condition to resent or repeal the aggression?”, “Is respectability in the eyes of foreign powers a safeguard against foreign encroachments?”, erano le domande che si poneva Alexander Hamilton nel “Federalista” (no. 15) nel 1787 a proposito della condizione della Confederazione americana. Le risposte che si dava erano desolanti “We have neither troops, nor treasury, nor government. Are we even in a condition to remonstrate with dignity?” “The imbecility of our Government even forbids them (foreign powers) to treat with us. Our ambassadors abroad are mere pageants of mimic sovereignty”. Tali domande sono quanto mai attuali e sono domande basilari a cui l’Europa dovrebbe rispondere per affrontare ad occhi aperti il mondo che l’aspetta, dopo tali fondamentali domande, dovrebbe farsene anche altre riguardo a come usare la propria influenza all’interno delle organizzazioni internazionali.
Once upon a virus.