dimaiobalcone

I partiti in Italia non esistono più. In agonia forse da molto tempo, in questa crisi di governo sembra di vedere nei partiti italiani le ultime esalazioni di un malato terminale. Nella pantomima dell’ascesa e della caduta del Governo gialloverde - che può sembrare una nevrotica e interminabile lite pre-separazione tra due coniugi poco sani di mente e sinceramente abbastanza fedifraghi - si può riconoscere (oltre a tutte le altre avvisaglie di pensieri illiberali e anti-democratici, da entrambe le parti, che si sono potuti istituzionalmente esprimere con tutta la loro virulenza durante questo anno e poco più di governo) una tendenza che caratterizza gran parte delle democrazie occidentali: il liquefarsi, l'evaporare dei partiti politici quali strutture organizzate di azione ed elaborazione politica e il diffondersi di una politica di leaderismi consociativi (e, più in generale, di una politica apartitica e arazionale, “pick ‘n mix politics” come la descrive la giornalista britannica Gillian Tett).

La crisi di Governo è stata avviata (ufficialmente) non per questioni di programma precipue e specifiche, non per il risultato di problemi elaborati e discussi nelle sedi di partito; è stata avviata senza un preavviso circostanziale dal leader, dal "Capitano" della Lega, non in sede istituzionale, ma durante un “privato” comizio politico ed è continuata nei media principalmente come un battibecco tra due (poi tre) diversi leader: Salvini, Di Maio, Conte. Anche il modo in cui l’unico (in sostanza) partito degno di questo nome in Italia, il PD, ha affrontato apartiticamente la crisi è indicativo: non sono stati gli organi del partito, infatti, a occuparsene propriamente e a dirimere la questione. Il partito è stato, al contrario, trascinato da correnti gruppettare attorno due leadership diverse (quella di Renzi e quella di Zingaretti) e, quasi inerzialmente, trascinato al Governo grazie all’agglomerarsi dei suoi gruppi parlamentari attorno alla leadership di Renzi, spesso contro le stesse prescrizioni della direzione (organo di indirizzo politico del partito).

Se è vero che la definitiva trasformazione dei partiti in aggregati leaderistici liquidi è forse una delle meno eclatanti e apparentemente preoccupanti disfunzioni e degenerazioni della democrazia manifestatesi in questi 14 mesi, si può altresì osservare che questa tendenza è stata una delle prime insorgenze di un fenomeno di deterioramento delle istituzioni liberali. Quello dei partiti non-partiti, dei partiti usa e getta, legati a bolle di consenso generate alternativamente da leader, o politici performer, o da fenomeni mediatici in voga, è un orientamento che emerge in tutta Europa e, più in generale, in gran parte dell’Occidente democratico. È un fenomeno che si osserva anche nella creazione di one-issue parties, e nell’inversione del rapporto tra posizionamento (o idee) e consenso (non si presentano più delle idee sulle quali ottenere consenso, ma si costruiscono idee e posizionamenti funzionali al consenso da ottenere).

Nel Regno Unito nelle ultime elezioni europee i principali partiti politici (i Tories e il Labour), due tra i partiti più antichi d’Europa, sono stati in gran parte cassati, battuti da liste (come il “Brexit Party”, a detta di Farage più un’azienda che un partito, sul modello Casaleggio ) che non erano propriamente partiti (ovvero sistemi organizzati di discussione, di produzione di contenuti e governo), ma formazioni, spesso appena nate, caratterizzate meramente da uno slogan o da un personaggio di spicco. Una tendenza riscontrabile anche nella precipitosa ascesa (e discesa) di leader non solo populisti, ma anche europeisti come Macron, che ha costruito quasi unicamente su base personale (in un certo modo "privata") il suo partito. Tale trend non è solo un’espressione dell’abitudine alla “customization” nel presente (così nell’intrattenimento come nella politica), come racconta Gillian Tett, ma un preoccupante segno della de-istituzionalizzazione delle nostre democrazie.

Il sorgere di questi agglomerati gruppettari leaderistici al posto di partiti veri e propri, porta anzitutto allo svilimento dei Parlamenti: i singoli deputati, eletti attraverso questi non-partiti, sono sovente invisibili o insignificanti, considerati come parte di una massa di manovra funzionale al leader o al brand. È interessante notare, a questo proposito, come nel 2017 proprio Macron avesse intenzione di introdurre un sistema proporzionale in Francia (nonostante la grande maggioranza di cui gode all’assemblea nazionale sia dovuta soprattutto al sistema elettorale maggioritario uninominale): il sistema uninominale è, infatti, un sistema che tendenzialmente crea un rapporto (di riconoscimento e responsabilità) tra gli elettori ed i singoli eletti (mettendo al centro della politica potenzialmente ognuno di loro), mentre il proporzionale favorisce l’appiattimento e l’omogeneizzazione, agli occhi degli elettori, dei singoli parlamentari all’interno di masse partitiche e, di conseguenza, teoricamente, sarebbe un sistema più consono per permettere l’omologazione conformistica degli eletti in formazioni leaderistiche e apartitiche.

Il "partito non-partito", il "partito usa e getta", il "partito azienda", il "partito trend" e il "leader-partito" sono fenomeni che in Italia abbiamo iniziato a conoscere (come spesso accade in politica) prima degli altri Paesi europei. Non siamo stati solo i pionieri del Movimento 5 stelle -partito-azienda post-ideologico completamente spoliticizzato e deresponsabilizzato (ricordiamo che l’iscrizione al Movimento è a costo zero) - ma abbiamo spesso avuto anche sotto-forme di leaderismi politici e ondate di consenso usa-e-getta: il funzionamento di Forza Italia (assolutamente estraneo a logiche democratiche) e, in un certo qual modo, anche la parabola di Renzi ne sono esempi significanti.

L’Italia è passata dall’essere il regime partitocratico per eccellenza ad essere la prima democrazia dei non-partiti, dei partiti vaporosi. Tuttavia, questa transizione è avvenuta con continuità, tanto che si potrebbe affermare che questo leaderismo esasperato e quasi consociativo, questa liquefazione dei partiti siano una malattia senile della partitocrazia. La partitocrazia è stata, infatti, lottizzazione da parte delle oligarchie di partito di enti statali e para-statali e del Parlamento, lottizzazione che spesso sviliva l’iniziativa dei parlamentari come singoli poiché incastonati in logiche soffocanti di partito e di potere (meccanismo prosperato grazie al proporzionale e alle preferenze). La partitocrazia è stata sovente anche un muro compatto che impediva di portare nel dibattito pubblico certe idee, certi argomenti e certi problemi e che impediva un ricambio sano della classe dirigente e politica secondo logiche di merito e non correntizie.

In uguale modo, la nuova liquefazione dei partiti, come già evidenziato, sminuisce l’individualità dei parlamentari - visti come componenti subalterne del corpo politico del leader o come impiegati dipendenti e vincolati del partito-azienda - e ripropone un meccanismo chiuso di produzione di idee e di classe dirigente. Con i partiti-azienda e i leader-partito si stanno progressivamente introducendo, come nuove essenziali categorie politiche, la lealtà e la fedeltà in sostituzione di altre nodali categorie politiche quale la coerenza. Si riproduce una chiusura di piaggeria cortigiana e settaria dove chi va avanti è possibilmente chi non sa o non vuole muovere critica o appunto alcuno al leader o all’azienda; un esempio ne è sicuramente l’assetto del Movimento 5 Stelle, ma un altro esempio significativo è anche il "giglio magico" renziano.

Se, come è stato spesso ricordato, la partitocrazia della Prima Repubblica ha spesso rappresentato un vulnus per la democrazia e per lo stato di diritto, attraverso una concezione finalistica del consenso (comprato a debito), attraverso una violazione dei principi e dei mandati costituzionali (la legge sul referendum, ad esempio, è stata approvata a scopo di parte solamente nel 1970), anche questi nuovi fenomeni di politica sono segno, simbolo e allo stesso tempo causa di gravi disfunzioni democratiche e delle istituzioni liberali.

La filogenesi di una politica che sta diventando sempre più informale e a-istituzionale, concentrata su espressioni (spesso caduche) del contenuto in funzione del consenso, comporta una svalutazione dell’assetto liberale formale dello Stato. Se gli attuali non-partiti, la cui funzione mira comunque ad influenzare le istituzioni e la vita sociale e politica del Paese, hanno una vita interna che non valuta o non considera come sua parte fondamentale un assetto “partitico”- ovvero un assetto che abbia delle istituzioni un meccanismo di “checks and balances”, una parvenza di stato di diritto e di rispetto delle regole - ciò inevitabilmente si rispecchia quando esponenti di tali non partiti ricoprono ruoli nelle effettive istituzioni. Sempre di più le questioni di forma o di metodo (riguardanti appunto l’ossatura profonda del “rule of law”) sono deprezzate a fastidiose e inutili pedanterie.

Se un’organizzazione che ha come obiettivo la vita democratica del Paese, considera le regole democratiche e i processi decisionali o di formazione della classe dirigente come delle moleste perdite di tempo per per la sua vita interna, è difficile che possa valutare i medesimi processi come imprescindibili per il funzionamento delle istituzioni dello Stato; è improbabile che chi si concentra unicamente sulla produzione bruta e materialista di un contenuto consensualmente falsato riesca poi a capire l’importanza della forma nello stato di diritto.

La conformazione della liquidità dei partiti non comporta, come sostengono alcuni, una vita democratica più vivida, libera o svincolata, ma la liquidazione delle istituzioni liberali come le conosciamo e delle garanzie di controllo che esse ci consentono.