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Il Ministro che a petto in fuori sfidava i magistrati ad andarlo a prendere alla fine si rifugerà nella più classica delle immunità politiche. Visto che i processi, come i voti, non solo si contano, ma anche si pesano, quello a Salvini rischiava di essere troppo pesante per il governo, mentre il suo provvidenziale salvamento da parte del popolo web della Casaleggio srl è tutto sommato il prezzo più leggero che il M5S può pagare per la sua subordinazione politico-culturale al populismo leghista.

Tra tutti i calcoli che Salvini deve essersi fatto, per capovolgere la sfida alla “giustizia” in una più prudente garanzia di immunità, quella decisiva non deve avere riguardato il processo in sé, ma le conseguenze del processo, non la sentenza, ma quell’anticipo di sentenza che in Italia è sempre legato alla processione di testimoni e di carte che inzuppano le pagine dei giornali per i casi e gli imputati eccellenti.

Un Salvini portato a processo, anche se non in manette ma in giubbotto da poliziotto del popolo, e interrogato puntigliosamente da un pm immediatamente protagonista e “antagonista” del potere, e quindi anch’esso potenzialmente beniamino del popolo, avrebbe perso immediatamente l’aura assoluta di forza e invincibilità che oggi gli propizia consensi facili e trasversali. Salvini sarebbe stato costretto ad assistere alla sfilata di dirigenti e di prefetti ministeriali pronti (per autotutela) a raccontare la semplice verità: che l’attività di governo è l’interpretazione burocratica di dispacci Facebook del Capitano e che al Viminale non si muove foglia che la Bestia non voglia. E anche questa rappresentazione alla lunga non avrebbe reso più eroica, ma più capricciosamente partitocratica, l’immagine del padrone della politica italiana.

Soprattutto Salvini sa una cosa che nelle stesse ore Renzi è stato costretto per l’ennesima volta a sperimentare, cioè che l’intreccio tra giustizia e politica, in un paese in cui anche la politica ha scelto il format del “Processo al potere” come paradigma etico ed estetico, fa alla lunga sempre il gioco dell’accusa (non necessariamente togata) e non quello della difesa e sacrifica con assoluta leggerezza qualunque questione di diritto, degradata per principio a pretestuosa digressione dal centro del problema, a cavillo avvocatesco nell’interesse dei cattivi.

È esattamente questa la trappola in cui è finito Renzi e in cui in queste ore finisce chiunque voglia eccepire qualcosa – anche più di qualcosa – sul provvedimento cautelare a carico dei due genitori dell’ex Golden Baby, cioè dei due imprenditori forse più pedinati, intercettati e sputtanati di Italia, ingabbiati in casa per il rischio della reiterazione di reati abbastanza antichi. Chi lo dicesse – io lo dico – è automaticamente considerato uno scherano del Bomba.

Perché questa, purtroppo, è la verità: in Italia qualunque personaggio pubblico non si può difendere nel processo e quindi deve necessariamente difendersi dal processo, a partire dalle prime risultanze istruttorie che, anche se coperte da segreto e destinate ad esaurirsi nel non luogo a procedere, possono ammazzare chiunque, accrescere la caratteristica evanescenza del potere e accorciare il già breve ciclo di vita di qualunque fenomeno politico.