Il #metoo e il diritto penale come riforma dei costumi. Una strada sbagliata
Diritto e libertà
Del #metoo, delle accusatrici accusate, dello scandalo montato dallo scandalismo mediatico e politico, la cosa culturalmente più rilevante è il progressivo slittamento del “diritto penale” in “diritto delle vittime” (o in “diritto per le vittime”) e quindi l’equivalenza tra l’accusa e la condanna, tra il sospetto e l’indegnità. È un meccanismo classicamente inquisitorio, la cui portata scavalla ampiamente il perimetro dell’eventuale e neppure obbligato procedimento giudiziario, e diventa patente immediata di discredito civile.
Quello dei reati sessuali, come di quelli di mafia e terrorismo e degli altri non necessariamente più gravi, ma politicamente più sensibili – dalla corruzione al finanziamento illecito ai partiti – è un campo in cui il cosiddetto garantismo (parola abusata e ormai inutilmente difensiva) ha una valenza puramente intra-processuale, ma non opera sul piano extra-processuale, condannando, quasi sempre di default l’inquisito al cosiddetto “passo indietro”. A fare la differenza di tenuta, di resistenza e quindi esteriormente di forza non è la posizione processuale, ma il potere dell’accusato, che in Italia (ma non solo) è sempre misura di credibilità e di intoccabilità.
Dunque il paradosso del sostanzialismo giuridico – che fa dell’accusa e del sospetto l’anticamera della verità – vale nella sostanza per i senza potere, non per i potenti. Asia Argento uscirà presumibilmente sfigurata da una vicenda che non ha, a quanto sembrerebbe, alcun rilievo giudiziario proprio perché si sentiva potente come accusatrice, ma non lo era abbastanza come accusata. Poi ci sono i veri potenti. Davigo ha sempre ironizzato sulla presunzione di innocenza sostenendo che a un accusato di pedofilia nessuno affiderebbe il proprio bambino, ma possiamo essere certi, anzi certissimi, che se analoga accusa gli venisse rivolta un pezzo di Italia insorgerebbe per preservare la sua postazione al CSM e il suo ruolo decisivo, quanto decisivo, nella lotta per la giustizia e farebbe a gara per affidargli bambini in custodia o perfino in affido, come prova di fiducia.
Il fatto che vi sia una sproporzione mastodontica tra le accuse di Asia Argento e di molte altre donne contro il molestatore seriale Weinstein e le pazzie e debolezze sessuali dell’attrice italiana con un giovane uomo (ai tempi) ancora minorenne non cambia il giudizio, perché una delle caratteristiche del sostanzialismo giuridico è di essere paranoicamente etico e alla fine di non fare differenza neppure tra il lecito e l’illecito, ma solo tra il “bene” e il “male”.
Per parlare d’altro: la Lega ha preso una barca di soldi dai Benetton, ma se una qualunque fondazione “renziana” venisse concretamente sospettata di avere percepito, ancorché lecitamente, uno scellino dalla stessa fonte ne sarebbe letteralmente distrutta. Mentre Salvini sta lì ad alzare sul prezzo, anzi sul pizzo, che Autostrade dovrà corrispondere per scampare l’ira dell’esecutivo dopo la tragedia di Genova. A illuminare di “bene” o di “male” una condotta o a rilasciare una speciale e magica immunità all’accusato è il suo potere, non la fondatezza dell’accusa.
Come disse il già citato Davigo: “La presunzione d'innocenza è un fatto interno al processo, non c'entra nulla coi rapporti sociali e politici”. E questo è vero, in questo paradigma, in primo luogo per i reati che si ritenga abbiano un più pesante impatto sociale e politico.
Non ci vuole molto a capire che questo meccanismo si presta a manipolazioni organizzate e tutto sommato assai semplici, che possono consentire di “ammazzare” avversari sociali e politici con un impiego di risorse e di mezzi limitati. Tanto più limitati, quanto più il bersaglio è un oppositore, un “non potente”, come nel caso di specie appare proprio Asia Argento, che è famosa, non troppo ricca e sicuramente non in grado di resistere a un assedio che vivisezionerà la sua intimità con il giovane accusatore per delegittimare il senso delle sue accuse a Weinstein e in generale quello della sua battaglia.
Tutto questo però – e spero che non suoni astrattamente didascalico sostenerlo – dimostra che la strada giudiziaria al rispetto sessuale, lo sputtanamento come riforma dei costumi, l’inquisizione come garanzia della parità tra i generi è davvero una strada sbagliata. Esattamente come nella lotta alla mafia, alla criminalità, alla corruzione o alla mala politica, non sono i tribunali e le piazze i luoghi in cui ribaltare i “rapporti politici e sociali”.
I tribunali possono condannare i mafiosi, i corrotti e i violentatori, ma farne uno strumento di pedagogia civile contro la mafia, la corruzione e la violenza porta a questi terribili paradossi: alla perversione della giustizia, all’imbarbarimento della politica e ai tribunali di piazza.