La svolta garantista non danneggerà gli ex giustizialisti
Diritto e libertà
Ipotizzare che i pentastellati subirebbero un violento contraccolpo in termini di consenso e credibilità se nell'ambito dell'affaire Diciotti i negassero l'autorizzazione a procedere, come pare abbiano intenzione di fare, significa sottovalutare la devozione fideistica degli elettori a cinque stelle per Di Maio & co, tanto più intensa quanto più idilliaca è (ancora) la luna di miele fra eletti ed elettori.
La stragrande maggioranza dei grillini ortodossi – torquemada, decrescitisti, ambientalisti e oltranzisti dell'antiparlamentarismo – avrà già abbandonato il Movimento, pronta magari a farvi ritorno col reingresso di Alessandro Di Battista, l'icona del grillismo movimentista messa sotto naftalina in vista della prossima ventura ricostruzione di una verginità politico-partitica.
I grillini di lotta, a differenza dei grillini di governo, liquiderebbero alla stregua di un sofisma il distinguo fra immunità parlamentare e ragion di Stato di machiavelliana memoria (quella che, in estrema sintesi, è al centro dell'affaire Diciotti); ma l'etica dei principi ha ceduto il passo a quella della responsabilità: oggi si può sottrarre una questione al sindacato dell'autorità giudiziaria per rimetterla nelle mani del Parlamento (della "casta", avrebbero detto anni fa), se questo è essenziale per la tenuta dell'esecutivo.
L'interventismo della magistratura è di volta in volta supportato a fini strumentali dalle opposizioni pro tempore, salva poi la loro pronta conversione al verbo garantista – o più precisamente al principio di separazione dei poteri – una volta giunti al governo. È la parabola del grillismo, ieri fautore di una vera e propria democrazia giudiziaria e oggi iper-sensibile ai cavilli, alle scriminanti e al principio di non colpevolezza.
La tensione fra politica e giustizia, in realtà, è una costante degli ultimi trent'anni. Mani Pulite inaugurò brutalmente una prassi a oggi rimasta invariata, dall'invito a comparire recapitato a Berlusconi nel Novembre del '94 al caso Consip, passando per Why Not e il caso Ruby.
Oggi appaltare alla magistratura – e cioè "giuridicizzare" – l'offensiva antinazionalista contro Salvini, così facendone un martire (magari della "giustizia politicizzata e buonista"), sarebbe un grosso errore. Gli ex crociati dell'antiberlusconismo dovrebbero ricordarlo: i tribunali sono una cosa, le urne e i sondaggi un'altra.
Al di là delle valutazioni delle opposizioni circa il caso in questione, e qualunque sia l'esito, le argomentazioni contro il salvinismo (e naturalmente contro il grillismo) dovranno essere sempre e soltanto squisitamente politiche per essere efficaci. L'egemonia della narrazione nazionalpopulista – e di quella salviniana nello specifico: sta monopolizzando il feudo dell'antipolitica – è tale che l'intervento di un giudice, a Berlino o a Catania, finirebbe per potenziarla anziché ridimensionarla.