Il conflitto contemporaneo tra diritto e giustizia
Diritto e libertà
Il sistema liberale ha uno scopo preciso e lo ha raggiunto con successo in Occidente: attraverso la garanzia della libertà sociale ha limitato il più possibile le materie oggetto dell’influenza del potere, del controllo politico. La democrazia liberale oggi, in sintesi, è tale se riduce gli ambiti nei quali una maggioranza è chiamata a decidere in danno di una minoranza.
È falsa, infatti, la credenza secondo la quale fin quando la fonte del potere rimanga la “maggioranza popolare”, lo stesso non potrà mai divenire illegittimo. La mera regola democratica, quindi, non protegge dall’arbitrio o, in ultima istanza, dalla forca. Occorre, infatti, che la sovranità venga limitata dai valori costituzionali e dall’imperio della legge. Ed è questo che distingue una democrazia liberale da una democrazia illiberale, espressione così in voga nell’Est europeo, o dalle democrature alla Putin ed Erdogan.
Vivere ed operare in un contesto di Rechtsstaat (Stato di diritto) significa essenzialmente avere a che fare con disposizioni di legge – generali ed astratte - prive di formule eticamente orientate o volutamente vaghe quali, ad esempio, ragionevolezza o giustizia. Queste, infatti, sono formule che rimettono la decisione sul caso concreto all’arbitrio dell’autorità di volta in volta chiamata a decidere la singolarità emergente, non secondo il diritto condiviso ma secondo la volontà del potente di turno che traduce, appunto, quei valori.
In tal modo procedendo – attraverso, quindi, la pervasività di una legislazione che interviene nelle dinamiche sociali sulla base di una ideologia o di una pianificazione fondata su verità e giustizia – si passa progressivamente dalla sovranità del diritto al diritto dello status, al privilegio riconosciuto per legge. Realizzando, così, un poderoso salto indietro dalla modernità dell’unificazione del soggetto giuridico ai privilegi medioevali.
Si badi bene, anche l’ideale della giustizia sociale, della lotta senza quartiere alle diseguaglianze, può portare, come ogni estremismo, a cassare lo Stato di diritto per cedere a un’istanza morale politicamente irresistibile e portatrice di consenso plebiscitario che, però, in fine, impone sempre una distribuzione orientata e, quindi, lungi dall’abbattere le classi, realizza solo nuove discriminazioni. In tal senso ha ragione Carl Schmitt ad opporre al Rechtsstaat liberale il contraltare dello Gerechte Staat, dello Stato giusto. Ma a che prezzo si paga tale giustizia? Che prezzo ha oggi – e ha sempre avuto in fondo - la discriminazione secondo status?
Ora, è bene sempre distinguere tra legge, intesa come certezza ed autorevolezza della norma, e legislazione motorizzata figlia improvvisata della contingenza, ed è bene , ancora, distinguere tra il diritto, anche spontaneo e consuetudinario, proprio di una comunità che si regge su regole condivise, e una produzione normativa ideologica, decisionistica e avulsa dalla realtà che, come tale, risulta imponderabile per gli attori sociali e pericolosa negli esiti delle scelte realizzate dai pianificatori. La deposizione attuale e progressiva della concezione liberale, l’estromissione cioè del diritto per l’affermazione “premoderna” della giustizia intesa come vox populi, porta ad una chiara e sistematica violazione delle garanzie del singolo e dei suoi diritti naturali che non può che esitare nel feticismo dello Stato etico.
Stato etico che, come tale e nelle sue rinnovate forme qualunquiste, è nemico dell’eguaglianza formale, del principio di rappresentanza, delle garanzie giuridiche (tutti argini al potere costituito), fino all’estremo della degenerazione del sistema penale nel quale al principio garantista nulla poena sine lege (nessuna pena in assenza di una legge preventiva che riconosca la precisa fattispecie di reato) viene surrettiziamente sostituito il principio inquisitorio e moralistico nullum crimen sine poena (nessun misfatto deve rimanere senza pena), secondo il quale prima si costruisce il teorema etico, sociologico, storico e filosofico dal quale se ne trae una qualche responsabilità oggettiva personale o di gruppo e solo dopo si cerca la copertura giuridica formale più adatta a sostenere l’accusa in giudizio; e se la fattispecie manca la si crea per via giurisprudenziale.
E tutto ciò, è bene ribadirlo, oggi passa come “accettabile” perché vige il pregiudizio consolidato e pericolosissimo che, in un contesto democratico, l’autorità votata e ratificata dal consenso dei più sia legittimata a fare qualsiasi cosa le sembri necessario per la protezione degli interessi collettivi di riferimento. Fu Lenin ad introdurre in Russia l’espressione “Chi, e a Chi?”, espressione che riassume il senso operativo di un potere totalitario dedito (per necessità storica e scientifica) al controllo di tutti i mezzi e, quindi, di tutti i fini sociali. Espressione che oggi potremmo ben tradurre così: chi pianifica dunque per gli altri, chi dirige e controlla gli altri? Chi fissa l’accettazione generale di una comune Weltanschauung?
Ciò che viene meno in tale contesto, è ovvio, è la libertà ma ciò non avviene in favore della sicurezza e della pace sociale: la deposizione del diritto a favore della presa di posizione pubblicistica per un gruppo sociale, infatti, porta solo a trasformare una parte della classe sfruttata in sfruttatrice con il paradossale sorgere di nuove classi di neo emarginati in lotta contro l’aristocrazia dei protetti e dei garantiti.
La sicurezza sociale, è bene sottolinearlo, è un indispensabile ambito giuridico e di buone prassi politiche ed è un preciso dovere dello Stato nei confronti dei soggetti deboli che vanno garantiti a spese della fiscalità generale. Il problema sorge, però, allorquando - come su rappresentato - la politica, il potere, l’autorità costituita intercetta, pro domo sua, l’istanza ideologica di una sicurezza assoluta contro i mali della vita e i suoi cicli, di una protezione totale utopistica (un idolo sostitutivo di matrice teologistica) pretesa dal Leviatano da parte di questo o quel gruppo che si auto rappresenta come ingiustamente leso ed emarginato, la cui soddisfazione emergenziale - di volta in volta assicurata - non può che ingenerare nuova insicurezza in quei gruppi necessariamente tagliati fuori dall’intervento statalista.
In tale ambito populista e demagogico, in questa rincorsa continua alla panacea di Stato non è strano, dunque, aumenti esponenzialmente il valore riconosciuto all’intervento d’autorità ab norme teso a correggere – moralisticamente - le dinamiche sociali e l’allocazione delle risorse, fino a creare totale incertezza tra gli attori sociali produttori di ricchezza e lavoro. Fino, inoltre, alla conseguenza politica che nessun prezzo – neanche la libertà – appare troppo alto da pagare per ottenere, finalmente, l’eldorado del reddito di Stato, dell’eguaglianza sostanziale tipo identica divisa e identici bisogni, stile Nord Corea.
E l’eclissi della libertà, come è noto, non è per altro l’ultimo stadio sulla via della schiavitù: perché se l’individuo, il singolo, l’uomo libero, non condivide la selezione discriminante degli interventi decisi dal potere e condivisa dalla maggioranza suddita dei protetti e garantiti, l’esito della dissidenza pro libertate può davvero essere letale. È stato infatti ben affermato da Wilhelm Röpke, il grande ideologo dell’economia sociale di mercato, che mentre per l’economia libera e la società aperta l’ultimo intervento sanzionatorio è l’ufficiale giudiziario, la sanzione definitiva di un’economia pianificata ed orientata in senso totalitario è il boia.