Il trionfo di Mani Pulite. Dal ‘popolismo’ giudiziario al populismo politico
Diritto e libertà
La morte di Francesco Saverio Borrelli coincide con il trionfo della dottrina di “Mani Pulite”, cioè del “processo al Palazzo” non solo come metafora, ma come programma politico e espediente trasformistico. Il "popolismo giudiziario" è stato il precursore morale e ideologico dell’o-ne-stà e del populismo, prima politico e poi antipolitico, delle opposizioni di ogni colore nell’assalto al cielo di un potere che senza questa rottura non avrebbe mai potuto finire nelle mani dei Salvini e dei Di Maio.
Mani Pulite è stato il “tutto cambi perché nulla cambi” di un Paese in cui la cattiva coscienza delle élite e del volgo trovò nel ceto politico sputtanato e arraffone la vittima sacrificale dell’incazzatura collettiva, il colpevole perfetto di tutte le magagne di un Paese imperfetto. Mentre nell’Italia - anche allora, come oggi, a un passo dal default -collassava politicamente il sistema politico primo-repubblicano, la Procura di Milano ufficializzò il teorema colpevolistico che avrebbe costruito la base della rivoluzione antipolitica.
L’Italia andava a picco perché i politici si erano mangiati i soldi, abusando del proprio potere, impoverendo e schiavizzando in un sistema di corruzione “scientifica” una nazione, che altrimenti sarebbe stata libera e prospera. La politica degli eletti non era a immagine e a somiglianza di quella degli elettori, ma era lo specchio deformante che dissolveva le virtù collettive del Popolo nei vizi privati della Casta. In questo teorema c’è la radice di un quarto di secolo di politica italiana, da Borrelli a cavallo, a Salvini sulla ruspa.
Visto che l’unica legge ferrea della storia è l’eterogenesi dei fini, gli sviluppi politici di Mani Pulite sono stati molto diversi da quelli che erano auspicati da molti dei principali protagonisti, a partire dal raffinato Borrelli e dal tormentato Colombo, cioè dai teorici della giustizia penale come profilassi politica, come ortopedia morale del legno storto dei partiti, dei parlamentari, degli uomini di governo.
C’è da credere, con quello che hanno fatto e detto dopo il primo momento di gloria, che essi stessi si siano doluti delle conseguenze collaterali (ma prevedibili) del sostanzialismo giuridico, del “galerismo” ideologico e di una giustizia la cui essenza e il cui esempio tintinnava nelle manette, e non nelle sentenze. La strada del paternalismo giudiziario illuminato che probabilmente Borrelli aveva in testa lasciò ovviamente spazio alle ghigliottine di cui pure la sua giustizia paternalistica finì per servirsi, nelle sfide al Parlamento e nella messa in mora preventiva dei Governi, in nome di una rappresentanza del popolo più disinteressata e quindi autentica di quella politica. Tutti gli eversori onesti pensano di essere dei salvatori e poi si dolgono di non esserlo stati.
Che Mani Pulite non fosse un risorgimento morale, ma la porta di accesso a una discesa agli inferi della politica e della giustizia post-liberale lo capirono meglio i Di Pietro e i Davigo, che non a caso furono quelli che dal 1994 in poi sguazzarono alla grande, in termini di consenso, di immagine e di potere, nella palude della Seconda Repubblica. Il cosiddetto Governo del Cambiamento è il figlio degenere, ma naturale delle monetine del Raphael e della giustizia di piazza che Mani Pulite inaugurò come soluzione politica ai problemi del Paese.