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C’è una scena del film "La notte di San Lorenzo", di Paolo e Vittorio Taviani, in cui un partigiano spara a freddo a un ragazzino di 15 anni disarmato, di fronte al padre in ginocchio che implora pietà per lui. E’ una scena forte, cruda, che lascia sgomenti proprio perché sfida violentemente la classificazione retorica dei "buoni" e dei "cattivi" all’interno di un film che invece di quella stessa retorica fa ampio uso.

E’ assolutamente vero, come dice il presidente dell’ANPI di Savona Samuele Sago, che alla fine della guerra c'erano “condizioni che oggi possono sembrare incomprensibili”. Così come non sarebbe comprensibile quella scena se provassimo a isolarla dal resto del film, allo stesso modo la storia della guerra civile combattuta in Italia tra il ’43 e il ’45 (e dei suoi strascichi immediatamente successivi) non può essere letta e interpretata per singoli episodi.

Ma se il film dei fratelli Taviani ha il merito - seppure all’interno di un’opera di fantasia - di non cedere alla tentazione di omettere il tragico per spiegare l’epico, la pretesa dell’ANPI di negare la dedica di una targa alla memoria di Giuseppina Ghersi - la tredicenne savonese seviziata e uccisa dai partigiani - avrebbe come effetto proprio quello di nascondere la realtà profonda della storia, negandone il senso e riducendo la possibilità di comprenderla.

E’ triste notare come la parte sporca di una guerra nobile non venisse nascosta nelle opere di chi la rappresentava decenni fa, e ne era stato coevo o protagonista - i fratelli Taviani de “La notte di San Lorenzo”, ma anche il Fenoglio dei “Racconti partigiani”, tra i tanti - mentre viene accuratamente rimossa e spazzata sotto il tappeto della memoria da chi della memoria di quegli anni si è autoproclamato vestale, l’ANPI delle seconde e terze generazioni, appunto.

Il ripudio della memoria di Giuseppina Ghersi, così come la sua glorificazione reducistica, sono la rappresentazione perfetta di un paese che non ha saputo - o voluto - fare i conti con il suo passato e accettarne le proporzioni: una bambina stuprata e uccisa per vendetta dai “buoni” non toglie nulla al male fatto dai “cattivi”, piuttosto racconta, come la scena del film dei Taviani, l’abisso in cui sia i “buoni” che i “cattivi” sono stati immersi, e da cui l’Italia contemporanea proviene.

Giuseppina non andrebbe ricordata come “vittima innocente”, ma come simbolo di un’epoca senza innocenza. Troppo, probabilmente, per un popolo che ha sempre rifiutato di riconoscere il fascismo in sé - l’autobiografia della nazione di cui parlava Piero Gobetti, o l'inconscio degli italiani di cui parlava lo stesso Mussolini - ma che ha sempre preteso di riconoscere, di combattere e di reprimere il fascismo “degli altri”, negli altri, e che oggi si contende le spoglie di una bambina morta settant’anni fa - per nasconderle o per esporle in ostensione - come estremo tentativo di rimozione o di autoassoluzione.