Crolli e demagogia. Il fascicolo del fabbricato non salva la vita
Diritto e libertà
Sabato 8 luglio, all’indomani della tragedia di Torre Annunziata, Sergio Rizzo - all’oscuro come tutti noi (compresi quanti hanno potuto/dovuto avvicinarsi all’edificio crollato) della dinamica oltre che delle cause del crollo della palazzina - in un articolo intitolato “Il Libretto Salvavita” ha scritto: “Fa quindi impressione rileggere oggi le parole di trionfo con cui la Confedilizia, associazione che riunisce i proprietari immobiliari, non più tardi di tre mesi fa accoglieva la bocciatura di un emendamento che avrebbe introdotto anche in Italia il fascicolo del fabbricato”.
In prima battuta non si può non sottolineare il modo, un po’ subdolo, con il quale all’inizio dell’articolo si propone al lettore l’insinuazione - anche macabra dato che si era a meno di 24 ore dalla tragedia - secondo la quale le 8 vittime si sarebbero potute salvare se ci fosse stato il cosiddetto fascicolo del fabbricato. Quale altro intendimento celerebbe, infatti, la scelta dell’autore dell’articolo - titolo a parte - di scrivere “impossibile dire se la tragedia di Torre Annunziata (…) si sarebbe evitata” e “Il libretto casa da solo probabilmente non ce l’avrebbe fatta a salvare quelle vite. Ma (…)” se non quello di classificare le 8 persone decedute anche - e forse soprattutto - come vittime di un sistema che non prevede l’obbligo del fascicolo del fabbricato ed in qualche modo di quanti si oppongono all’introduzione del suddetto obbligo, prima ancora che della tremenda concatenazione di fatti, tutti da accertare, all’origine della tragedia?
Detto questo, anche ove avesse ritenuto comunque opportuno e necessario cogliere l’occasione del tragico evento per proporre il tema del fascicolo del fabbricato, non sarebbe stato lecito aspettarsi che Sergio Rizzo - giornalista legittimamente schierato, ma al pari dei suoi colleghi obbligato ad essere informato e ad informare correttamente i lettori - non puntasse il dito contro un’associazione come Confedilizia, ma piuttosto contro la magistratura amministrativa e la Corte Costituzionale che hanno censurato le norme con le quali si è cercato di introdurre il fascicolo del fabbricato e, perché no, contro i legislatori incapaci di scrivere ed approvare norme compatibili con i principi del nostro ordinamento?
Rispetto al merito della questione può essere utile segnalare la replica del presidente di Confedilizia, nonché le parole dell’ordinario di Tecnica delle Costruzioni dell’Università Roma Tre Camillo Nuti raccolte ai microfoni di Radio Uno il 26 settembre dell’anno scorso. Si consideri, altresì, che il fascicolo del fabbricato - per come è stato prospettato in alcune delle proposte non tradottesi in norma ovvero in alcune disposizioni regionali che sono state cassate e censurate dalla magistratura amministrativa e dalla Corte Costituzionale - non è un atto con il quale si accertano le condizioni statiche e di sicurezza di un immobile e conseguentemente si inibisce oppure si autorizza la realizzazione di determinati interventi edilizi e/o l’introduzione di destinazioni d’uso, ovvero si stabiliscono condizioni e prescrizioni da ottemperare pena la non “autorizzabilità” e la sospensione di eventuali attività edilizie e, laddove ce ne siano i presupposti, la dichiarazione di inagibilità dell’immobile e conseguentemente l’ordine di sgombero.
Fatta salva l’aleatorietà dei fattori (la resistenza degli elementi strutturali e no, come pure delle forze che agiscono sulla struttura, le condizioni ambientali etc.) che condizionano la stabilità e la sicurezza di un edificio, uno strumento con le caratteristiche sopraindicate potrebbe ridurre, anche se certo non azzerare, la possibilità che avvengano tragedie connesse al degrado statico di un immobile oppure alla realizzazione di interventi edilizi e/o a improprie forme d’uso del medesimo immobile. Ma non è questo il fascicolo salvavita propagandato da Sergio Rizzo - e periodicamente richiesto dagli ordini professionali degli architetti geologi ed ingegneri - e non potrà esserlo fin quando l’attività edilizia e l’uso degli immobili saranno regolati da un complesso di norme pubblicistiche (le norme legislative e regolamentari contenute nel Testo Unico sull’Edilizia; le leggi regionali in materia ed a livello dei diversi Comuni dai regolamenti edilizi e dalle prescrizioni e dalle norme tecniche degli strumenti urbanistici locali) che non possono, necessariamente, essere sostituite dalle indicazioni contenute nei fascicoli del fabbricato dei quali ciascuna amministrazione condominiale, per ciascun edificio, si dovrà dotare affidandone la redazione ad un tecnico su base fiduciaria.
È vero che nell’esercizio della delega legislativa per la riforma della pubblica amministrazione il Governo ha stabilito che la Segnalazione Certificata di Inizio Attività di cui all’art. 19 della legge 241 del 1990 (nota come SCIA) rappresenti il modulo provvedimentale tipico nel tentativo di far virare il nostro ordinamento verso un modello di autoamministrazione (o di amministrazione diffusa) nel quale la dichiarazione del privato viene considerata titolo di legittimazione con valore negoziale e l’intervento degli organi e degli uffici pubblici non viene escluso ma reso, comunque, eventuale.
Avevamo già segnalato come apparissero lenti ed incerti i passi del legislatore lungo questo complesso e difficile percorso e come la sussistenza e/o l’introduzione di una pluralità di forme di gestione e regolazione del territorio (siano quelle urbanistico-edilizie sia quelle connesse alla tutela dell’ambiente e del paesaggio) spesso non univocamente interpretabili rendessero particolarmente difficile, se non impossibile, per il tecnico (ed il privato interessato) verificare ed accertare la rispondenza dell’intervento da realizzare o dell’attività da intraprendere ai criteri e ai presupposti fissati dal complesso di regole (e dunque non solo da una previsione di legge) che trova applicazione.
Tuttavia, ciò che qui rileva non sono tanto le incertezze del legislatore, ma il fatto che i sostenitori, alla Sergio Rizzo, del fascicolo del fabbricato obbligatorio sono gli stessi che sulle stesse pagine hanno denunciato in questi anni - in qualche caso anche infondatamente – i tentativi dei diversi governi di intervenire sui procedimenti amministrativi nell’ottica di una maggiore e piena responsabilizzazione sia dei privati (per esempio con l’estensione degli interventi realizzabili in seguito alla presentazione di una segnalazione certificata), sia delle amministrazioni, con le tanto odiate forme di silenzio-assenso e/o di silenzio/inerzia almeno tra diverse amministrazioni.
Ciò svela l’ipocrisia dei sostenitori del fascicolo del fabbricato, che non sono realmente interessati ad una piena e diffusa responsabilizzazione dei privati (dei proprietari) nella cura e nella custodia attiva degli immobili; responsabilizzazione quanto mai necessaria non solo per lo stato delle nostre amministrazioni ma anche per l’approccio favorevole alla sussidiarietà sostenuto dalle istituzioni comunitarie. Un’impostazione di questo tipo può essere coerentemente perseguita, infatti, soltanto attraverso una matura e decisa transizione verso l’avversato modello di autoamministrazione nell’ambito del quale potrebbero trovare la giusta collocazione strumenti come un fascicolo del fabbricato - magari esteso ad aggregati definiti in modo appropriato tenendo conto delle tipologie insediative e delle caratteristiche geomorfologiche dell’area - concepito non come semplice raccolta di atti e documenti, ma come strumento per una effettiva gestione ed auto-amministrazione dell’immobile e delle sue forme d’uso, fatta salva la necessità, ovviamente, di costruire sperimentate ed affidabili forme di governo e regolazione della conflittualità endemica che affligge il nostro paese.
Ma purtroppo è ben altro, e decisamente meno condivisibile ed utile, l’intento di quanti puntano, invece, alla semplice introduzione ad ordinamento invariato - anzi ove possibile “depurato” oltre che dal “renzismo” anche da forme di autoamministrazione in odore di liberismo selvaggio e ricondotto ad un più tradizionale modello command and control - dell’obbligo, a carico dei cittadini, di ricercare tutta la documentazione amministrativa relativa al fabbricato, già in possesso dei diversi uffici dell’amministrazione e/o delle amministrazioni coinvolte, e di effettuare un insieme di analisi, più o meno invasive, con le quale cercare di fare una fotografia (radiografia) dell’immobile ad un dato momento (quello nel quale viene affidato l’incarico di predisporre il fascicolo del fabbricato). Analisi di questo tipo finirebbero per aggiungersi ai numerosi studi che le amministrazioni incaricate di vigilare su determinati beni e vincoli hanno commissionato ed effettuato nel corso del tempo - e che continueranno a fare - senza che ne sia discesa, necessariamente, una costante efficace e misurabile azione di implementazione delle azioni e delle strategie operative messe a punto.
Ma quel che è peggio che la raccolta di dati ed informazioni finirebbe per essere fatta senza l’indicazione preordinata di scopi e finalità ed obiettivi definiti che - come è noto - è uno dei requisiti indispensabili affinché un’analisi possa essere svolta in modo coerente e produrre risultati utili, e non costituire una sorta di mero adempimento burocratico indotto da una disposizione legislativa come, per esempio, l’attestato di prestazione energetica (APE) degli edifici da allegare ai contratti di locazione e di compravendita. Da questo punto di vista suonano come una sorte di triste conferma le parole del ministro Delrio che, all’indomani della tragedia, ha prospettato proprio la possibilità di introdurre, con la prossima legge di stabilità, l’obbligo di allegare un non meglio identificato “certificato di stabilità” ai contratti di affitto e di compravendita, con buona pace degli immobili destinati a non essere collocati sul mercato e con tutti i problemi ed i contenziosi che una norma di questo tipo si porterà dietro se, come è lecito aspettarsi, la stabilità da comprovare - con teorie e metodi che, come sa chiunque studi e verifichi strutture edilizie, sono probabilistici - non sarà soltanto quella dell’appartamento da affittare o vendere ma dell’intero fabbricato nel quale si trova ovvero del complesso urbanistico-edilizio nel quale si trova.
Ma tornando alla questione di metodo segnalata inizialmente, non si può non segnalare che con articoli come quello di Sergio Rizzo non si informa l’opinione pubblica, ma se ne avvelenano le fonti e si imbarbarisce il dibattito su una questione rispetto alla quale è obbligatorio consentire una libera ed incondizionata espressione dei diversi convincimenti e valutazioni. È un principio che deve essere fatto valere, a prescindere dalle questioni di merito che i temi di volta in volta posti all’attenzione dell’opinione pubblica si portano inevitabilmente dietro.
Altrimenti - per fare un’ipotesi che, pur avendo a che fare con una questione come l’introduzione del reato di omicidio stradale che ha trovato una sua definizione e con la presa di posizione di una persona purtroppo scomparsa, appare pertinente oltreché eloquente - si sarebbe dovuto ritenere accettabile e normale che durante il dibattito che ha preceduto l’approvazione della norma sul cosiddetto omicidio stradale, all’indomani di uno dei tanti incidenti stradali che fanno, ahinoi, registrare delle vittime, sulle colonne del più diffuso quotidiano italiano qualcuno avesse scritto “Fa quindi impressione rileggere oggi le parole di Marco Pannella (….) ” che, come è noto, fedele al convincimento secondo il quale i fenomeni sociali non si possono governare esclusivamente attraverso le disposizioni del codice penale ed il loro periodico inasprimento, aveva espresso la sua contrarietà rispetto all’introduzione del reato di omicidio stradale.