Reati culturalmente orientati e sentenze politicamente fraintese
Diritto e libertà
La Corte di Cassazione ha di recente confermato la condanna di un indiano di religione sikh per aver condotto con sé un coltello sacro (Kirpan) incorrendo nella contravvenzione di porto d’armi e strumenti atti ad offendere.
Il riferimento contenuto nel testo della pronuncia all’esigenza che l’immigrato “conformi i propri valori a quelli del mondo occidentale”, ha scatenato la polemica e trasformato la sentenza in ennesimo strumento di lotta contro l’avversario politico. Chi la brandisce contro la non meglio definita categoria dei “buonisti”, quelli a favore dell’accoglienza e della società multiculturale, per sottolinearne il fallimento; chi storce il naso, come Gramellini sul Corriere della Sera, che bacchetta la Suprema Corte per aver osato parlare di rispetto e aderenza dello straniero ai valori occidentali.
Si tratta tuttavia di una lettura parziale, atecnica e ingenua della sentenza, in realtà pienamente in linea con il costante orientamento della giurisprudenza su una tematica non nuova. Ormai da anni, infatti, e nella più totale indifferenza dei giornali che da qualche giorno si divertono a inventare titoloni a effetto, esiste un intero settore del diritto penale riguardante i cosiddetti “reati culturalmente orientati”: si tratta di fatti commessi da stranieri, vietati dalle normative italiane e sanzionati quali delitti o contravvenzioni, ma sostanzialmente conformi ai sistemi valoriali e alle leggi vigenti nei Paesi di provenienza. Si pensi ai maltrattamenti in famiglia o all’abuso dei mezzi di correzione perpetrati da padri padroni nei confronti di mogli e figlie. La difesa, in questo tipo di processi, tende a servirsi di uno strumento tecnico, vale a dire la causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto (categoria di cui fa parte anche la tanto dibattuta legittima difesa), in virtù della quale a fronte dell’ammissione da parte dell’imputato di aver commesso il fatto che gli si contesta si vuole far emergere che in realtà quel suo comportamento è ammesso dall’ordinamento perché espressione di un diritto, in conformità al sistema di valori interiorizzato e imposto nel Paese d’origine.
Questo impianto argomentativo è da sempre pacificamente rigettato dalla giurisprudenza. Il caso in esame rientra a pieno titolo tra i reati culturalmente orientati: la Cassazione, con argomentazione non dissimile, sostiene che non ricorra un giustificato motivo, tale da rendere lecita la condotta dell’imputato. Questi sosteneva di avere diritto, tutelato dall’art. 19 della Carta costituzionale, di professare la propria religione che impone di portare con sé il pugnale sacro: la Cassazione, al contrario, conformemente a quanto affermato dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul punto, sostiene che la tutela dell’ordine pubblico, e in particolare della sicurezza e della pacifica convivenza, beni giuridici di primaria importanza nella società contemporanea, non possa soccombere di fronte ad una non meglio specificata esigenza di condurre con sé uno strumento oggettivamente pericoloso. L’unicità del tessuto giuridico non ammette, infatti, la creazione di enclavi culturali da parte di cittadini stranieri, sottratti al rispetto di disposizioni fondamentali per la tutela della società, quali sono per loro natura le norme di diritto penale.
D’altro canto, la Cassazione conferma, in una parte della sentenza che sarà sfuggita ai tanti commentatori, che la società multietnica è una necessità e che il pluralismo sociale è un principio tutelato dall’art. 2 della Costituzione. Nessuno esclude che l’orientamento consolidato della giurisprudenza sul punto possa mutare, ma fare del testo di questa pronuncia un manifesto politico contro lo straniero è semplicemente una mistificazione, operata da chi preferisce all’analisi tecnica delle sentenze una lettura sommaria, facile da manipolare a fini di clickbaiting, ma incapace di offrire all’opinione pubblica un quadro corretto della realtà dei fatti.