cirinnà

Come si dice, fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, e dunque è inevitabile che sul riconoscimento giuridico delle unioni familiari omosessuali faccia fragore la residuale diffidenza catto-dem sulla stepchild adoption o la disperata resistenza familista della destra, moderata e no, alla consacrazione pubblicistica delle "nuove" famiglie, e invece neppure si senta la resa clamorosa della Chiesa italiana a una riforma che nella stagione ruiniana aveva rappresentato lo scandalo contro cui mobilitare (anzi, ricostruire) la coscienza e l'identità cattolica nazionale.

Ovviamente Ruini e Bagnasco hanno rispolverato il vecchio archibugio dei "valori non negoziabili", confidando anche nell'ostilità che la civil partnership all'italiana, in una stagione di vacche magre, potrebbe suscitare nel grosso delle 25,6 milioni di famiglie cosiddette normali, offese da un welfare micragnoso e smaccatamente anti-familiare e indisponibili a spartirne le briciole con poche decine di migliaia di famiglie gay.

Lo stesso Galantino, che tra i vertici dell'episcopato italiano è il rappresentante ufficialmente più "francescano", ha aperto alla riforma in modo molto condizionato e difensivo, non mancando di segnalare la natura pericolosamente elitaria di una fuga in avanti che portasse a privilegiare i diritti delle coppie gay a bisogni sociali più diffusi e dolorosi. Il disimpegno della Chiesa, comunque, non è solo l'onda lunga di questo pontificato, ma di un fenomeno di cui lo stesso pontificato potrebbe essere effetto, cioè del progressivo sganciamento, nella coscienza cattolica "ufficiale", della questione antropologica dai temi bioetici della morale sessuale e familiare. Per lungo tempo si è sostenuto che l'estraneità culturale dei cattolici alle durezze della dottrina morale della Chiesa su matrimonio e contraccezione avesse comportato una sorta di "scisma sommerso" e non ricomponibile con i meri richiami all'obbedienza al magistero papale.

Oggi la frattura non è più tra la gerarchia e il popolo, ma tra chi ai vertici della Chiesa italiana ritiene che l'ubi consistam dell'antropologia cristiana possa rintracciarsi ancora nella gigantesca (culturalmente parlando) resistenza di Ratzinger e nella centralità dell'ortodossia sessuale e familiare, e chi pensa che questa visione eroica dell'identità cattolica e della sua proiezione politica porti la Chiesa non solo all'isolamento dai fedeli, ma all'alienazione dal mondo.

La Chiesa non è diventata gay-friendly e non lo diventerà finché non risolverà la questione omosessuale "interna", sempre in bilico tra dissimulazione e condanna, in una ormai insostenibile doppiezza pratica e dottrinaria. Semplicemente, la gran parte dei parroci e dei vescovi non pensano più che quella "anti famiglie gay" sia la trincea che i cattolici debbano imprescindibilmente difendere, perché né dai costumi sessuali né dalla nuova morale familiare viene oggi la sfida più minacciosa al "diritto naturale" e alla dignità umana. In questo quadro, sarebbe incredibile sprecare la finestra di opportunità offerta dalla renitenza della Chiesa a una battaglia che le truppe più attardate del clericalismo politico vorrebbero ancora combattere nel suo nome.

Se i Dico erano stati fermati da Ruini e da uno schieramento che vedeva in quel passaggio un rischio esistenziale per il potere e l'influenza del mondo cattolico, questa legge, con tutte le possibili mediazioni, non può essere fermata da Alfano, né da Salvini, ma solo dall'autolesionistico e ricattatorio ingarbugliamento del fronte ad essa (in teoria) favorevole. E purtroppo - a leggere le cronache delle ultime ore - questa non sembra una possibilità così remota.

@carmelopalma