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A pensarci bene e ad osservare i primi balbettii degli "homines novi" che sono approdati al governo sul "cavallo di battaglia" delle pensioni, si incontrano (può essere che tra un po’ si scontrino) due diverse impostazioni: una della Lega, l’altra del M5S. Per ora l’attenzione è concentrata sulla prima (ovvero il rilancio del pensionamento di anzianità quale struttura portante del sistema pensionistico) e tutti cercano di capire come funzioneranno quota 100 (come somma del requisito anagrafico e di quello della anzianità di servizio) e quota 41 (qualcuno ci aggiunge qualche mese in più) a prescindere dall’età pensionabile.

Quanto alla seconda, la pittoresca "pensione di cittadinanza", proposta dal guru pentastellato e finita anch’essa nel contratto, si sa solo che essa eleverà il trattamento minimo più o meno a livello del reddito di cittadinanza. Così – detto tra di noi – nessuno avrà bisogno di lavorare perché potrà vivere e morire in regime di assistenza. Il reddito di cittadinanza gli consentirà di togliersi il disturbo di guadagnarsi uno stipendio; la pensione anch’essa di cittadinanza gli arriverà a tempo debito anche se l’interessato non si sarà presa la briga di versare i contributi.

Per di più, con la flat tax il nostro pagherà le imposte in modo più o meno simbolico. È un ritorno ai Giardini dell’Eden, con l’avvertenza – questo lo capisce persino Giuseppe Conte – di non assaggiare la mela proibita. Negli ultimi giorni è sceso in campo l’ideologo della Lega in materia di previdenza: Alberto Brambilla, il quale non è uno sprovveduto, ma uno studioso che sa il fatto suo e che potrebbe essere chiamato a far parte dell’esecutivo (come sottosegretario o vice-ministro del Lavoro). Nell’articolare meglio le proposte di controriforma, ha messo in evidenza che l’impostazione del Carroccio prende spunto da un approccio, anche culturale, diverso da quello banalmente assistenziale dei pentastellati.

L’anteprima dello "stop" (è il termine usato nel contratto) alla riforma Fornero e la visione che la giustifica si trovano nelle conclusioni del Quinto Rapporto di "Itinerari previdenziali", la fondazione di cui è patron lo stesso Brambilla. Leggiamo insieme. «Sono quindi preferibili politiche - è scritto nel documento - che tendano a premiare il "lavoro", la "fedeltà contributiva" e le lunghe carriere per cui l’indicizzazione dell’età di pensionamento alla aspettativa di vita resta un requisito irrinunciabile per gli equilibri del sistema (soprattutto per le pensioni di vecchiaia con carriere brevi e per quelle assistenziali), ma occorre altresì reintrodurre elementi di flessibilità in uscita ripristinando le caratteristiche della legge n. 335/1995. A tal fine si dovrebbe in prima battuta sganciare l’anzianità contributiva (nota bene: non il dato anagrafico, ndr) dall’aspettativa di vita (una caratteristica solo italiana introdotta con la riforma Fornero) prevedendo un massimo di 41 anni e mezzo di contribuzione con un massimo di 3 anni di contributi figurativi e un’età minima di 63 (poi divenuti 64, ndr) anni d’età. È scarsamente equo (e, si potrebbe dibattere, forse anche poco costituzionale) immaginare – prosegue il Rapporto - che un lavoratore possa accedere alla pensione con solo 20 anni di contributi e 67 anni di età (magari facendosi integrare la prestazione per via della modesta pensione a calcolo) e che un altro con oltre il doppio dei contributi e senza rischi di integrazioni a carico dell’erario, debba lavorare per oltre 43 anni (nel 2019)».

Non vorremmo forzare la mano, ma in tali valutazioni si percepisce anche un giudizio di carattere sociologico, se non addirittura etico nei confronti del bravo lavoratore padano "che la sua pensione se l'è guadagnata". Ma la vicenda ha un seguito. Per Brambilla, il "buco nero" non sta nella previdenza (per difendere la quale compone e scompone, secondo criteri personali, gli addendi della relativa spesa), ma nell’assistenza (che è invece il settore che i 5stelle vorrebbero incrementare). Continuiamo la leggere il Brambilla-pensiero: «per contro la spesa per assistenza, come si è evidenziato più volte, rischia di andare fuori controllo anche a causa della eccessiva competizione politica che la incrementa di anno in anno (si veda il recente aumento delle quattordicesime mensilità e l’introduzione del REL) senza peraltro armonizzare le norme di accesso e prevedere forme di controllo efficaci attraverso il casellario centrale dell’assistenza, mai partito, che potrebbe generare migliore allocazione delle risorse e risparmi».

Come si concilia una siffatta affermazione con l’introduzione di una bizzarra ed onerosa pensione di cittadinanza? Non è la prima volta che la Lega fa quadrato intorno all’istituto dell’anzianità, in difesa del quale ha mandato a gambe all’aria per ben due volte (nel 1994 e nel 2011) il Governo Berlusconi. La spiegazione è banale. A vantare la quota più elevata di pensioni di anzianità sul rispettivo totale, sono le regioni del Nord Italia: Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto, che occupano nell’ordine i primi posti della classifica. Gli ultimi posti sono invece per le regioni del Centro-Sud (Molise, Basilicata, Umbria, Calabria) e quelle a statuto speciale (Valle d’Aosta, Sardegna, Trentino-Alto Adige) a eccezione della Sicilia che si trova a metà classifica.

Più o meno le stesse considerazioni valgono per le pensioni di vecchiaia con le regioni del Centro-Nord come la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Lazio, il Piemonte, il Veneto, la Toscana e nel Sud la Campania, dove risiede il maggior numero di titolari di pensioni di vecchiaia rispetto al totale della categoria (tra il 17,3% e il 7,0%). Nelle regioni del Sud Italia, invece, risiede il più alto numero di titolari di pensioni di invalidità previdenziale rispetto al totale. La Campania, il Lazio, la Sicilia e la Puglia occupano i primi posti della classifica, con un rapporto tra il 10, 8% e il 9,3%. Nel Nord, in Lombardia risiede l’8,8% dei titolari di pensioni di invalidità previdenziale. Guardando al numero di pensioni ai superstiti, i rapporti più elevati si distribuiscono tra Nord e Centro Italia. Come se non bastasse circa il 77,9% delle pensioni di anzianità/anticipate sono erogate a soggetti di sesso maschile, mentre tale percentuale si abbassa al 35,1% per le pensioni di vecchiaia (che sono erogate in prevalenza alle donne le quali di solito non sono in grado di accumulare gli standard di contribuzione necessari per avvalersi dei trattamenti anticipati).

È molto semplice comprendere, allora, che al di là delle coperture finanziarie, la controriforma è sbagliata nel merito, perché i nuovi requisiti consentiranno qualche vantaggio per i baby boomers ancora in attività in grado di far valere lunghi periodi contributivi ad un’età non anziana (ora tra il 60-61 anni), ma determinerà situazioni e soglie inaccessibili per le donne e per i giovani, condannati, in generale, ad avere storie lavorative più brevi e non sempre stabili e continuative.