Nella serata di domenica 7 novembre 2014 è morto il cantante Mango, apprezzato e seguito da molti conoscitori della musica italiana.
Ha avuto la sfortuna, però, di morire durante un concerto, mentre stava cantando, ripreso con i telefonini nel momento in cui veniva colto dal malore che in pochi minuti lo avrebbe ucciso.

Si può davvero parlare di "sfortuna" per un uomo che se ne va cantando un suo successo di fronte a centinaia di fan che sono lì per lui?

mango big

Normalmente forse no: molti sarebbero contenti di lasciare questo mondo in un momento di gioia, in cui si sentono amati e stimati da tante persone. Il fatto è, però, che qualcuno di quei video fatti col telefonino, mentre Mango si accasciava dicendo "scusate", è stato caricato in Internet e ha cominciato a circolare.

Da Youtube è finito sul sito dell'Huffington Post e su varie altre testate online, tutte evidentemente ansiose di non rimanere indietro, di non lasciare ai giornali rivali (o, ancora peggio, al perfido Youtube - che però il controllo dei contenuti non ce l'ha, mentre loro sì) il privilegio di titolare, con varianti più o meno elaborate, "il video di Mango che muore, clicca qui".

Su questo, la stampa italiana si è divisa in due: da un lato chi si è indignato per una morte spettacolarizzata inutilmente, per una notizia "arricchita" da un video che nulla aggiunge al racconto dei fatti, ma è strumentale a solleticare una certa morbosità presente in molte persone e quindi a ottenere più letture; dall'altro chi difende la scelta di pubblicare il video sostenendo che è un modo come un altro di dare una notizia, che è il mondo in cui viviamo ad imporre questi eccessi di pubblicità, che la stampa non è nuova a cose del genere, che tanto ormai era già online e qualcuno avrebbe finito per "viralizzarlo" comunque.

Se il "partito degli indignati" è quello a cui molti aderiscono spinti dalla propria sensibilità, il "partito dei cinici" pone comunque delle ragioni non facili da aggirare o da liquidare, soprattutto perché, almeno in Italia, le linee guida della professione giornalistica sono dei precetti deontologici obsoleti già per il mondo della televisione, figuriamoci per quello di Internet, in cui produttore di notizie e contenuti è diventato, potenzialmente, chiunque al mondo abbia una connessione dati.

È dunque "giusto" accusare di moralismo e ipocrisia chi non ha voluto pubblicare il famigerato video? È solo per lucrare in un altro modo sulla morte di un cantante famoso che alcuni hanno scritto parole infuocate contro chi ha deciso di pubblicarlo?

A nostro avviso, porre la questione in questo modo è riduttivo. Certamente ci sarà stato chi ha voluto farsi bello con una presunta superiorità morale, ma altrettanto certamente esistono delle ragioni vere, oneste e comprensibili per provare fastidio di fronte alla scelta di spettacolarizzare la morte di un uomo, per quanto famoso egli possa essere.

Forse non sarebbe stato male se l'autore del video per primo, seguito da chi lavora nei siti d'informazione e da chi ha voluto condividere il tutto sui social network, si fosse chiesto "A ME farebbe piacere diventare il morto del giorno in HD? Sarei contento se una cosa del genere succedesse a mio padre o a un mio amico? O non la vedrei piuttosto come una violenza, una violazione di un momento che avrebbe dovuto restare intimo?"

Non pretendiamo di dare un'unica risposta, una risposta "giusta" a queste domande. Tuttavia, la sensazione è che molti non se le siano proprio poste, probabilmente nemmeno per malafede, ma perché porsele è fuori moda, è poco smart, non va d'accordo coi parossismi di cui vive l'informazione contemporanea, dove la concorrenza non è più rappresentata da poche decine di giornali e da qualche telegiornale, ma è diventata un esercito di più un miliardo di persone armate di smartphone.

Forse l'unica cosa da dire è proprio che non c'è niente da dire. Che la fine di una persona ha bisogno di rispetto e silenzio, quello che sui media non c'è stato, che quest'articolo probabilmente non contribuisce a ottenere, ma che prima o poi, speriamo, cadrà su questa vicenda come su tante altre, restituendo il momento della morte alla dimensione del privato in cui, nonostante tutto, riteniamo meriti ancora di stare.