Francesco De Sanctis ritratto

"Il Lettore Impuro è uno che a suo tempo si è debitamente innamorato della Teoria, ma è poi sopravvissuto alla relazione perché ha, per dirla con Valéry e Frank Kermode, un grande 'appetito di poesia'". Ecco, De Sanctis, oggi, potrebbe venire catalogato proprio come un “lettore impuro”, per dirla con Piero Boitani. Quasi un moderno comparatista avanti lettera che ci appare, ancora oggi, come una sorta di “critico centauro”: “mezzo formalista, a occuparsi del come – mezzo sociologo, a occuparsi del perché. Badate, mezzo e mezzo. Non un ragionevole compromesso: no, Jekyll e Hyde”, per dirla con Franco Moretti.

E come Jekyll e Hyde il critico di Morra (oggi Morra De Sanctis), a duecento anni dalla nascita (l’Università di Salerno, in collaborazione con il Comitato Nazionale di Studi desanctisiani e la rivista Sinestesie, vi ha dedicato un importante convegno internazionale nello scorso ottobre), è sempre pronto a sdoppiarsi, senza mai temere le trappole della contraddizione. Filosofo, appassionato lettore di Vico ed Hegel, politico, letterato, europeista ante litteram, De Sanctis è quel genio eclettico e ibrido in grado ancora oggi di trascinarci, con travolgente passione, nella macchina del tempo della storia e della letteratura, per raccontarci un avvincente romanzo. Quello della coscienza morale, civile e religiosa degli italiani, dove è impossibile scindere la politica, la filosofia e la religione, dalla letteratura, in quanto tutte “nate ad un parto” (plurigemellare). Un romanzo il cui fine sarà quello di costruire un’identità e una coscienza civile attraverso la letteratura, e con la potenza di un mito vichiano. Quasi in anticipo sull’epistemologia contemporanea, De Sanctis sembra intuire che l’errore è il motore della conoscenza.
E non rappresenta forse un errore quella sua storia della letteratura, impresa titanica, ma zeppa di imprecisioni e faziosità?

Parafrasando e anticipando Croce, De Sanctis sembra suggerire che la forma senza il contenuto è cosa tanto ripugnante al pensiero, quanto il contenuto senza la forma. Precorrendo il circolo crociano dei distinti, il critico pone in una relazione “circolare e ricorsiva” tanto la dialettica tra forma e contenuto, quanto quella tra unità (Storia della letteratura) e distinzione, molteplicità (saggio monografico). Superando, in siffatto modo, la dialettica hegeliana appiattita ancora sulla sintesi e precorrendo, quasi, quella metafora del circolo che sarà prerogativa della filosofia novecentesca e dell’ermeneutica contemporanea. D’altronde, nonostante la Storia della letteratura italiana sia apparentemente lineare, essa si presenta tuttavia ricca di imperfezioni e sproporzioni. Ma, soprattutto, essa sembra priva di una hegeliana linea continua verso un telos. Piuttosto che dalle certezze del cogito cartesiano, la storia desanctisiana sembra mossa dalle proustiane “intermittenze del cuore”, tutta scritta, così com’è, “cum ira et studio”, capovolgendo il presupposto metodologico di Tacito. Tutta percorsa dal fervore del Mithos, piuttosto che dal distacco del Logos. Una moderna storia, intesa anche come finzione retorica, appassionata e faziosa, alla maniera di Hayden White. Immune da leggi deterministiche, complessa e contraddittoria.

L’opera desanctisiana sembra immune, dunque, dal messianesimo provvidenzialistico che da Hegel passa a Marx. Come osserva Asor Rosa, infatti, “il diagramma che De Sanctis disegna è, essenzialmente, quello di una decadenza”, che inizia quando “alla figura del poeta si sostituisce quella del letterato e dell’artista”. E così, “Dante che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine". Alfa e omega della nostra letteratura, Dante rappresenta, per De Sanctis, quella coscienza religiosa, intrisa di spirito popolare, in grado di rafforzare la coscienza civile di una nazione. Eccola, allora, la grandezza del “populismo”: elevare il popolo, attraverso la religione e la letteratura, piuttosto che cedere ai suoi più bassi istinti come vorrebbe il populismo corrivo dei demagoghi odierni.

Sembriamo trovarci di fronte ad un modello ermeneutico che si interpreta all’insegna della circolarità. Se Dante è, infatti, il poeta che si preoccupa dei contenuti, Petrarca è l'artista che si prende cura della forma. Ma entrambi sono importanti e insistono in quella dialettica circolare dove la forma è l’unità del contenuto che racchiude il “secreto della vita”. Anche in tal senso il modello desanctisiano sembra racchiudere i prodromi della complessità e, piuttosto che alla ragione dialettica di Hegel e a quella critica di Kant, sembra ispirarsi alla “ragione vitale” di Hortega y Gasset, il grande intellettuale liberale e democratico amato anche da Leonardo Sciascia.

Ora, se per De Sanctis, all’epoca della scrittura della Storia della letteratura italiana, il modello di critica più moderno sembrava essere quello della monografia critica, quale argomento ha potuto distoglierlo da quella conquista, per fargli volgere lo sguardo indietro? Ebbene, quasi certamente quell’argomento fu la politica. Quella politica che segnò, appassionatamente, tutta l’esistenza di De Sanctis, penetrando la sua “ragione vitale” sino alla carne e al sangue e che sembra costituire il medium in grado di condurre il critico dalla monografia critica alla storia unitaria della letteratura. Per De Sanctis, infatti, la politica può essere intesa alla stregua della scienza del vivente. Come nota, giustamente, Toni Iermano, è nella solitudine del “sofferto e amaro” esilio torinese (1853-1856) e durante la permanenza a Zurigo (1856-1860) che De Sanctis “medita a lungo sulla possibilità di scrivere una storia della letteratura italiana come storia della nazione”.

A questo punto non possiamo non cogliere le analogie che attraversano il pensiero di De Sanctis collegandolo con quello del grande teorico della complessità: Edgar Morin. Il critico, infatti, precorrendo Morin costruisce una potente narrazione in grado di raccontare e inventare l’identità religiosa, politica e letteraria di una nazione. In una sola parola la sua mitologia fondante. Il mito, scrive Morin, “non è la sovrastruttura della nazione: è ciò che genera la solidarietà e la comunità; è il cemento necessario a ogni società e, nella società complessa, è il solo antidoto all’atomizzazione individuale e all’irruzione distruttrice dei conflitti. Così, in una rotazione autogeneratrice del tutto attraverso i suoi elementi costitutivi e degli elementi costitutivi attraverso il tutto, il mito genera ciò che lo genera, cioè lo Stato-nazione stesso”.

Europeista avanti lettera, secondo Contini “il De Sanctis fu infatti di quegli italiani che dal fondo della loro provincia cercarono un rimedio alla tirannide regia in una cultura europea, e non si cimentarono nello scavo di una presunta cultura italica o comunque autoctona, quella su cui era ripiegato il Cuoco del Platone in Italia e che con altre modalità dovea essere al centro del più illustre scrittore ‘guelfo’, il Gioberti”.

Al riparo da quei maestri del pensiero contemporaneo che teorizzano la chiusura dei confini in nome di un vieto e pericolosamente rinascente spirito nazionalistico, De Sanctis sembra quasi educare a una “coscienza d’appartenenza all’identità europea”, precorrendo Morin e il moderno pensiero europeista.