Internet senza regole? Pura ipocrisia
Terza pagina
Condensare i dinosauri, il sovrano Hammurabi, la scoperta dell'America, il filosofo Hobbes e Laura Boldrini in poche righe mi costerà enorme sforzo, riassumere il concetto in una frase mi verrà spontaneo: internet ha bisogno di regole. Laura Boldrini è solo la punta dell'iceberg di un fenomeno su cui riflettere (che ha toccato anche me in quanto italo-iraniano): la violenza dilagante verso le minoranze e la diversità.
Che sia valvola di sfogo per frustrazioni personali, metodo per far collezionare clic ad account pubblicitari o strumentalizzazione politica poco importa: internet ogni giorno si ingrandisce per numero di utenti e, parallelamente, abbassa la media di umanità di chi lo popola.
Sia chiaro, non si tratta dell'unico problema esistente nell'universo della rete, eppure è quello che meglio di tutti svela la legge di civiltà più antica del mondo: l'essere umano, se si sente totalmente sciolto da vincoli, diventa predatore dei propri simili. Non ho inventato nulla, "homo homini lupus" è l'aforisma che racchiude al meglio il pensiero di Thomas Hobbes: "l'uomo è lupo per l'altro uomo", non serviranno molte altre spiegazioni.
Del resto l'esistenza dello Stato, del sistema di leggi che lo regolano e del suo monopolio nell'uso della forza hanno caratterizzato tutte le società umane da almeno 3000 anni, il ritrovamento del codice di Hammurabi ne è una prova evidente.
Ai fautori della "piena libertà del web" evidentemente non è ben chiaro un concetto espresso fra le righe nella frase precedente: "tutte le società umane" (o almeno tutte quelle che hanno dato matrice alla nostra cultura) si sono nel tempo autoregolamentate. Non mi voglio spingere nella creazione di ucronie o fantomatici stati di natura, ma credo sia abbastanza scontato che la legiferazione sia una conseguenza non solo della coscienza del fatto che l'uomo può arrecare danno al proprio simile se non controllato, ma anche della volontà intrinseca all'uomo stesso di voler costituire civiltà, ovvero un meccanismo organico in cui vi è tutela anche di elementi più deboli ma non per questo meno utili.
Al di là delle innumerevoli violenze che possono essere perpetuate sul web, argomento per il quale non basterebbe un libro, qualcuno forse dimentica che alla base del mio ragionamento c'è una verità incontrovertibile benché scomoda: internet è un fenomeno umano, e in quanto fenomeno umano su larga scala replica difetti e pregi della nostra specie, senza alcuna esclusione. Espressioni di superbia, narcisismo, avidità e rabbia hanno la possibilità di amplificarsi nella fitta rete di connessioni istantanee che internet offre, permettendo al "cretino del bar", per dirla con Umberto Eco, di ottenere "lo stesso ascolto di un premio Nobel".
Pensare di guardare ad internet come la terra di una nuova umanità è prendersi in giro, è commettere gli stessi errori dei puritani pellegrini sbarcati in America nel 1620 convinti di poter lasciare nel vecchio continente il vizio e la perdizione, a vantaggio di una presunta ed intrinseca purezza dell'animo umano.
Sulle nuove piazze dunque ci siamo noi, con i nostri pregi ed i nostri limiti, con nuovi orizzonti ma con i vecchi schemi. Siamo noi, gli stessi che hanno dovuto aspettare una legge per mettersi la cintura di sicurezza, che l'hanno accolta con qualche malumore salvo poi ringraziarla dopo avere avuto prova dei benefici diretti derivanti da buone pratiche di autoregolamentazione. Idealmente vorremmo tutti fare a meno della legge, delle forze dell'ordine e dello stato. Dovremmo, però, fare un bagno di realtà nel momento in cui l'idea non regge il confronto con lo status quo, che è ben lontano dall’essere un paradiso.
E cosa c'entrano in tutto questo i dinosauri? I dinosauri sono esseri affascinanti, è indubbio, tuttavia sono terribilmente datati. I dinosauri hanno tentato per anni di scrivere leggi in odore di censura collezionando figuracce e impantanamenti legislativi che hanno portato il tema a ciclici e sterili nulla di fatto. Non possiamo permettere che le regole di internet vengano scritte da chi internet non lo conosce o da chi ha solo una vaghissima idea del suo funzionamento.
Il disegno di legge presentato dalla senatrice Adele Gambaro in questi giorni è la prova di una lunga serie di goffi tentativi, a volte commessi in buona fede, di costruire un muro per arginare il mare.
I limiti di tale proposta sono evidenti all'articolo 1, scritto con l'incontestabile merito di aver riassunto la propria inadeguatezza in pochissime righe: "Chiunque pubblichi o diffonda notizie false, esagerate o tendenziose (…) è punito con un’ammenda fino a 5000 euro”. Difficile capire nel testo quale sia il metro della verità, della misura quantitativa dell’informazione e del carattere propagandistico di un contenuto. Ancora più complicato capire cosa significhi davvero “diffondere”, poiché tecnicamente contenitore anche di retweet o di condivisioni, azioni che porterebbero potenzialmente davanti ai giudici migliaia di utenti ogni giorno. Una prospettiva che non farebbe altro che aprire ad orizzonti di incartamento burocratico o, più semplicemente, di non applicazione della norma.
Una bozza con un incipit che inciampa e un finale fantasioso, soprattutto quando impone, all’articolo 7, generiche e non meglio precisate responsabilità alle piattaforme social sul monitoraggio dei contenuti, forse dimenticando (o più semplicemente ignorando) che, tanto per fare un esempio, sono circa 16 milioni le azioni compiute su Facebook. In un minuto.
Non sono un giurista, non chiedetemi la forma o il contenuto di una buona legge: c'è chi propone di limitarsi all'identificazione degli utenti e dei loro contenuti e chi fa notare come le regole in realtà ci siano già nel nostro ordinamento ma siano allo stesso tempo di difficilissima applicazione in rete. Non so come possa ricostituirsi una civiltà digitale, non sono un sociologo. So solo che la violenza e la bassezza della retorica si traducono in pericolose forme antidemocratiche nelle istituzioni reali, in ferite reali, in vittime umane.
Per salvarci da tutto questo i dinosauri dovranno estinguersi, i cittadini del web dovranno riconoscersi in quanto tali e partecipare al necessario processo di autoregolamentazione.
Dobbiamo farlo senza cadere nel tranello della monopolizzazione del vero e della censura ma dobbiamo farlo senza paura, senza l’illusione di poter arginare il mare. Perché del mare non si deve avere paura, sempre che si impari a navigare.