Da 'Il privato è politico' a una politica dell'intimità
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Nelle diverse articolazioni del mito rivoluzionario dello scorso secolo tutto era invischiato nel ‘politico’, anche e soprattutto il privato, quella dimensione esistenziale che una certa vulgata ideologica si impegnava a strappare dal segreto intimo della vita familiare per portarla alla luce del conflitto sociale e per decostruirla, una volta emerse alla ‘critica’ le dinamiche economiche condizionanti.
Tutto il processo era interpretato come progresso inarrestabile verso la realizzazione, se non di un prossimo, senz'altro di un sicuro paradiso terrestre nel quale a ciascuno sarebbe toccato la sorte di soddisfare naturalmente i propri bisogni, una volta dismessi i panni della singolarità egoista e vestiti quelli ‘uniformi’ e perequati dell'uguaglianza proletaria.
Poi, come sappiamo, le cose sono andate diversamente: sotto la coltre del grigio collettivismo di Stato nell'est europeo, e dell’uniformismo culturale e d’élite nell'Occidente radical chic, l’individualismo ha trovato comunque nuovi sbocchi di affermazione – tra cui anche la riscoperta del Sacro e il parziale sdoganamento del classico ragionamento metafisico – ed il sogno socialista e scientista si è frantumato, schiacciato non solo dal crollo del Muro ma, ben più in profondità, dal progressivo moto di ribellione delle coscienze frustrate di cittadini/insetti/ingranaggi parte di quei regimi ‘popolari e democratici’, i quali, dopo anni di ateismo di Stato e di egualitarismo legalmente imposto - e tarato inevitabilmente verso il basso - non chiedevano altro che merito, differenziazione, possibilità di crescita, ricchezza, libera scelta e, non ultima, libertà di professare la propria fede in Dio.
Di certo anche tale rivolgimento ideologico – divenuto apparentemente dominante - verso il Singolo e la sua affermazione (a distanza ormai di un quarto di secolo dalla fine dell’impero sovietico), sta lasciando residui e tracce nefaste, errori, esagerazioni ed estremismi relativistici che rischiano di impoverire del tutto quel che resta del concetto di Stato e di un sentimento di collettività che, lungi dall'essere retaggio del vecchio e dello sconfitto, rappresenta, invece, una ineliminabile dimensione della Persona. Ma – come è ovvio - non tutto è perduto, e mai nessuna epoca dell’avventura umana si è svolta davvero nel vuoto pneumatico.
Oggi, ad esempio, tra i giovani non è più di moda disquisire di rivoluzione e di sorti progressive e necessarie, e, di certo, il paradigma “il privato è politico” non è più interpretato – come fecero anche i loro coetanei sessantottini - come un legittimo movimento verso la compiuta espropriazione di una intimità vissuta solo come una eredità di tradizioni. Tradizioni destinate ad essere travolte da un destino di Soviet, di cooperative, di Kibbutz, nei quali con l’individualità egotista sarebbe stato cassato ogni luogo intermedio del libero esercizio della Persona: matrimonio, famiglia, casa propria, libero impiego, libero svago; insomma tutti quei luoghi dell’anima nei quali il numero ristretto, la selezione e l’esclusione, la cernita degli affetti e degli impegni, avrebbe contraddetto l’obbligata permeabilità collettiva e solidale di una nuova politica, di una Nuova Società senza discriminazioni, appunto, né classi e chiusure.
Le nuove generazioni, figlie del disimpegno post contestatario e della disfatta dei miti di ‘liberazione’, possono non sapere nulla del conflitto ontologico tra capitale e lavoro, né della necessità scientifica della sconfitta del capitalismo, ma sanno ancora dibattere di vita e politica, declinando questi termini nell’ambito di nuovi modelli ideologici (figli, a mio parere, di una rinnovata forma di affermazione liberante del Privato), sui temi delle differenze di genere (non più analizzate esclusivamente nell'ambito del ghetto femminista), dei diritti degli omosessuali (tra i quali si rivendica in primis il diritto tradizionale al matrimonio e alla famiglia), dell’accesso alle tecniche di procreazione assistita (altro che aborto libero!), delle scelte individuali sul fine vita, intuite queste ultime da un lato come un ponte spirituale, cimento verso le Cose Ultime (altro che ateismo di Stato!) e, dall'altro, come affermazione liberale di limiti invalicabili da parte dell’’Organizzazione Pubblica, compresa quella sanitaria.
Potremmo parlare di biopolitica, o ancora meglio, di un nuovo tipo di riconoscimento politico delle scelte di vita, oggi ripiegato sulla persona in sé, sul suo proprio valore e non sulla classe sociale di appartenenza, né sulla applicazione di un concetto astratto di Giustizia.
Per molti tale ripiegamento intimo è negativo: Žižek – nel suo saggio del 2013 “In difesa delle cause perse” - parla apertamente di abbandono scellerato delle Grandi Cause Rivoluzionarie del passato a favore dell’affermazione reazionaria di un pensiero debole incapace di visioni energetiche e, quindi, violente, nel senso di quella violenza pura e divina così bene tratteggiata da Benjamin nel 1920 ed alla quale tutto si può perdonare – magari anche le vittime – perché indirizzata ed orientata alla Giustizia ed alla Verità fulminea, scientifica appunto.
In realtà, però, l’approfondimento del solco che divide, oggi, agenti pro-life e pro-choice, difensori del matrimonio tradizionale e transgender che vogliono accedere al matrimonio, cultori dell’eutanasia e carnefici dell’accanimento terapeutico, familisti morali ed amorali, non evidenzia - a mio parere - una rinuncia “borghese” ai grandi temi di filosofia della storia ma una loro riformulazione incentrata sulle istanze di libertà di un singolo che rivendica esclusivamente a sé quei ‘luoghi’ che si intende sottrarre all'attrazione del mito dell’emancipazione collettiva; non si tratta più, quindi, di lottare per l’affermazione di un Paradiso intra temporale, ma di certo non si può dire che il tempo della lotta contro l’inferno del sopruso e dell’ingiustizia sia finito solo perché lo scetticismo verso facili ricette utopistiche ci impedisce – almeno per adesso, grazie al buon senso della maggioranza dei cittadini d’Occidente - di sacrificare la libertà individuale sull’altare della Giustizia Totalitaria.
In tale quadro, quindi, lo scontro effettivo – quello eminentemente spirituale - non è tra le opposte fazioni in campo sulle tematiche relative a quelli che in Italia chiamiamo diritti civili (e che in America, più correttamente, vengono definiti diritti sociali) ma si svolge – e ciò è paradigmatico all’interno delle Sinistre e nello sfaccettato ambito populista – tra chi vede nell'ancoraggio alle libertà individuali (anche religiose) una possibilità ancora non completamente esplorata per il riscatto sociale – penso all'autocritico Bertinotti che si mette volontariamente a scuola di liberalismo e a tutti i sinceri riformisti - e coloro, ad esempio i neo putiniani convertiti sulla strada dell’autoritarismo decisionista e conservatore (tra i quali, oggi, c’è da annoverare, per certi versi, anche il presidente Trump) e, cambiando ambito e valore, al filologo Luciano Canfora che contro la fede religiosa dei Tibetani firma appelli a favore della repressione cinese, i quali bocciano tali questioni e tali dinamiche come piccolo borghesi, come sterili e debosciate trivialità liberali dalle quali solo la fine del capitalismo – magari con l’aiuto ‘storico-necessario’ dei terroristi islamici – ci potrà liberare, liberandoci probabilmente – aggiungiamo noi – dall'uomo stesso, da una complessità irriducibile ad unità che si tenta ancora una volta di ridurre per ragion di Stato.
Di uno Stato nuovo si intende, forte ed autoritario (il regista russo Andrej Konchalovskij, quello che ha chiesto a Putin una legge contro McDonald's ed a favore dei panini russi, non da oggi sminuisce il valore delle libere elezioni e della tutela di ‘reperti archeologici’ quali i diritti umani) che si dovrà necessariamente imporre contro le deboli ragioni dello Stato di Diritto, di quello stato fondato su leggi, costituzione e personalismo che consente in Occidente l’emergere e la diffusione capillare di un dibattito – penso, ad esempio, a quello sul matrimonio degli omosessuali o, in Italia, sul definitivo riconoscimento legale delle unioni civili – che vede il confronto pubblico, acceso, vitale e comunque proficuo (nel senso della conoscenza e della comprensione) di parti che vanno comunque nella stessa direzione: quella del riconoscimento liberale e democratico - ma anche cristiano e sociale nel senso auspicato da Francesco – del fatto che il privato non è del tutto politico ma è senz'altro di interesse pubblico il suo libero esplicarsi nelle scelte di coscienza.