Luciano Floridi grande

L’effetto dei social network sul sistema dell’informazione e sui processi politici globali è sempre più dirompente. Nel contempo queste grandi piattaforme, che intermediano il flusso della vita economica e civile, costituiscono un mercato sempre più marcatamente monopolistico o oligopolistico. Del ruolo delle politiche e delle legislazioni antitrust, per ripristinare condizioni di competizione e pluralismo, e dello stato della politica e della democrazia minacciata dal populismo social, abbiamo discusso con Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell'informazione all'Università di Oxford e presidente del Comitato Scientifico di Base Italia.

Professor Floridi, dei social network tendiamo ad accorgerci quando “espellono” Trump o quando siamo costretti a registrare come la polarizzazione dello scontro delle opinioni, caratteristico nei social, diventi il vero paradigma della discussione politica. L’opinione pubblica però tende a sottovalutare il problema del peso della concentrazione di un enorme potere di influenza in capo a pochi grandi operatori, in un mercato che non sembra affatto competitivo. Insomma il tema della rottura dei monopoli è urgente, ma non sembra essere riconosciuto, né nel significato politico, né in quello economico.

Il tema antitrust è fondamentale, perché ne va della nostra organizzazione sociale politica e democratica. Le piattaforme hanno un potere sulla società straordinario, noi lo vediamo in Europa, ma dobbiamo immaginare quale sia il potere di queste piattaforme in aree del mondo, che ne sono ancora più dipendenti, come accade col commercio elettronico o l’informazione. Il problema dell’oligopolio o monopolio dei giganti social in vari ambiti della nostra vita “onlife” va visto anche nei termini della possibile risposta dal punto di vista democratico e quindi legislativo. Un aspetto fondamentale è quello dell’antitrust e quindi quello della competizione, e della legislazione intesa come quadro entro cui questa competizione opera e si esplica. Con l’antitrust noi possiamo far ripartire il grande motore della concorrenza, che si è in gran parte fermato. Se noi guardiamo alla competizione tra questi giganti oggi c’è solo in quelle aree di mercato che non sono ancora assegnate all’uno o all’altro: pensiamo alla competizione per l’intrattenimento on line di contenuti tra AppleTv, Netflix e DisneyTv. Quella competizione c’è perché non si è ancora arrivati ad una sorta di pax digitalis. Se Disney decidesse di occuparsi solo di tv per bimbi, Nextflix facesse tutto tranne documentari e Apple solo documentari, finirebbe la competizione. La competizione è già sparita ad esempio in settori chiave come quello del “search” dove Microsoft non compete più con Google o quello del social dove Google+ ha perso la sfida con Facebook.

Accanto alla disciplina legislativa e a quella antitrust, c’è un ruolo anche per l’opinione pubblica, cioè per quei miliardi di cittadini che sono utenti, ma anche merci e prodotti dell’attività economica dell’infosfera?

Ecco, l’antitrust dovrebbe far ripartire la competizione e accanto a questo ci sono due forze fondamentali, che sono quelle dei vincoli legislativi su ‘cosa poter fare e cosa no’ (come accade col Gdpr) e dell’opinione pubblica, che può fare la differenza e fare da catalizzatore per gli altri due fattori: cioè l’antitrust viene o non viene riformato negli Usa – e la nuova legislazione sull’intelligenza artificiale viene o non viene applicata – anche a seconda della reazione dell’opinione pubblica. Pensiamo ad esempio all’uso in Italia di Clubhouse (se rispetta o meno il Gdpr) o a TikTok (dove scopriamo che l’età di accesso non è sempre controllata seriamente). L’opinione pubblica è quindi alla base come grande forza di trasformazione. Ci sono poi strumenti come l’antitrust e la legislazione: messe insieme queste tre forze controbilanciano quello che oggi è un oligopolio di piattaforme nate per fare altro. Non erano nate per avere un ruolo fondamentale nella politica e nella società, ma per metterci in contatto sostenendosi con la pubblicità per contenuti e intrattenimento. Oggi abbiamo capito che non c’è più questa barriera: non esiste una reale separazione tra piattaforme che fanno solo intrattenimento e non fanno politica o piattaforme che offrono solo informazione politica. Per esempio, Twitter non era nata per fare politica poi è diventato lo strumento principale del Presidente degli Stati Uniti fino a ieri.

Quindi i social network hanno le chiavi delle nostre case e vite?

In questo contesto dove non ci sono più barriere è opportuno mettere un ‘framework’, una cornice legislativa: ciò farà anche la differenza tra l’Europa e il resto del mondo. Tra l’altro la frammentazione di internet è una cosa che già accade nel mondo: ci sono servizi e modalità per gli stessi servizi che sono disponibili in un paese e non in un altro. Ci sono servizi e contenuti che sono legali in un paese e non in un altro. Basti pensare a YouTube e a quanto sia diverso usare questa piattaforma in Germania, in Italia o in Turchia. L’Europa può avere un ruolo di leadership in fatto di modello di cornice legislativa, come accaduto col Gdpr che è stato d’esempio per altre legislazioni. Anche la stessa legislazione che sta arrivando sul controllo dei contenuti on line potrà essere d’esempio per altre legislazioni nel mondo. Se si ha un luogo “buono” dove le cose avvengono "bene" poi gli altri dovranno adeguarsi o comunque faranno più fatica a vietare tutto. La competizione tra sistemi fa bene a tutti perché significa che non si vanno a creare posizioni di rendita. Al contempo, la frammentazione dei quadri normativi in cui le società sono chiamate a operare è dannosa anche perché aumenta senza ragione i costi sul business.

Nell’infosfera, il potere più forte di condizionamento – non solo sul piano delle convinzioni, ma anche delle percezioni – è nelle mani di chi veicola e diffonde le informazioni, non di chi le produce. E questo potere viene mascherato come se si trattasse di una attività neutrale. Come arginare questo potere?

Se pensiamo al ‘potere grigio’, per differenzialo da quello politico-legislativo, notiamo che si è spostato sempre di più nell’ombra: se una volta il potere era di chi controllava i mezzi di produzione dei beni materiali, poi questo potere è passato in mano a chi aveva il potere delle informazioni sui mezzi di produzione e sui beni materiali, cioè i mass media. Oggi il potere non è più nelle mani di chi produce le cose o l’informazione sulle cose, ma di chi veicola informazioni sulle cose. Il potere che ha Facebook o Twitter rispetto ai giornali non è più comparabile: i produttori di contenuti di altri tempi avevano quel potere ma il potere di influenza è nelle mani di chi permette la circolazione delle informazioni e dei contenuti. Basti vedere quello che sta avvenendo in Australia con Facebook. Si capisce allora perché Apple può litigare con Facebook sulla privacy: uno produce hardware, l’altro servizi. Chi rende possibile lo scambio di informazioni, non chi le produce, oggi detiene un potere enorme. È la neo-intermediazione. Si torna dunque alla necessità di rimettere in campo un progetto democratico della nostra società.

Infatti, siamo in una situazione paradossale, in cui temiamo un potere di controllo globale sulla vita e le opinioni di tutti, ma riteniamo che la politica, che nelle società liberal-democratiche serve innanzitutto a tutelare i diritti dei cittadini dall’esercizio di un potere incontrollato, non possa più adempiere a questo ruolo.

Torniamo al punto di partenza: chi controlla i controllori della veicolazione dei contenuti? La risposta è: “i controllati” e la consapevolezza degli individui e della società di tale processo. La società elegge chi la controlla, controllando chi la controlla. Perché siamo meno appassionati di politica? Perché non controlliamo più i partiti, che sono privi di quella responsabilizzazione democratica funzionale al sistema. Ciò accade ancora con i sindaci perché uno conosce il proprio e sa che può incontrarlo per strada, cambiarlo, mandarlo a casa. Col partito “x” uno sa che non potrà farci granché. La politica oggi in Italia decide ancora come sempre la vita del cittadino, ma a questo non corrisponde una reale “accountability”.

La nostra sembra la democrazia della rabbia, dello scontento, del risentimento…

Quando le persone smettono di credere totalmente nella politica si scatena poi una rabbia pericolosa. Dalla tassazione, alla salute, dal lavoro alla previdenza: queste decisioni sono in mano alle forze e alle istituzioni politiche, gli errori possono non solo generare disastri, ma anche grandi risentimenti, di cui il populismo è poi la conseguenza. A latere ci sarebbe da parlare del mondo ‘sommerso’: quante persone conosciamo – per non parlare di noi stessi - che dicono “io però poi me la devo cavare, davanti allo Stato che non mi difende e non mi ascolta”. La stessa evasione fiscale è non solo un crimine e un segnale di una società che non funziona, ma anche un indice del livello di cinico distacco dalla res publica. Comprenderla non significa giustificarla, ma senza capire perché avvengono questi fenomeni di massa finiamo per pensare che ci sono milioni di italiani che sono malfattori. Non è così. Molte forme di illegalità sono anche forme di autodifesa dalla politica e dalla burocrazia. Facciamo un esempio non italiano: in passato, se guardavamo alle statistiche canadesi di scaricamenti illegali di contenuti online vedevamo picchi incredibili. Dopo l’arrivo di Netflix, che offre legalmente e per pochi dollari al mese vaste librerie audio-video, immediatamente c’è stato il crollo di quel traffico illegale. Allora ecco la necessità di riformare la tassazione in Italia rendendola facile per tutti, dando fiducia agli italiani, smettendo di avere uno Stato che gioca a guardie e ladri con il cittadino, determinando la risposta dei cittadini incentivati a raggirare lo Stato. La difficoltà con cui lo Stato impone al cittadino di adempiere ai suoi doveri è cruciale. L’amministrazione pubblica dovrebbe avere come missione quella di facilitare l’esercizio dei doveri dei cittadini.

Il mondo occidentale ha di fronte un modello politico alternativo e concorrente che sembra esercitare un grande fascino. Quello cinese, di un potere assoluto, che controlla in forza di questo statuto anche i social media, secondo finalità ideologicamente collettive e generali, ma in realtà funzionali a preservare la stabilità del regime e il ruolo del partito unico. Però la Cina dà l’idea di “funzionare”. All’inizio della pandemia, un sacco di politici e scienziati si sono rammaricati di non potere fare come in Cina. Da questo confronto, quale lezione l'Occidente deve acquisire, se non vuole rinunciare a se stesso?

Che la democrazia costa. La democrazia non è una cosa gratuita che ti ritrovi senza sacrifici. Il costo della democrazia significa anche tempo per conciliare esigenze diverse. Il principio per cui quando vince la maggioranza la minoranza non perde è fondamentale e prezioso. La vittoria di Pirro del dittatore che decide per tutti è una lezione della storia. La democrazia costa ed ha un valore da apprezzare ed è un buon costo perché ci sono momenti in cui, quando quel costo non lo hai pagato, il prezzo finale è altissimo. Ciò non toglie che le democrazie possano essere più agili e veloci: non c’è scritto da nessuna parte che la democrazia debba essere necessariamente elefantiaca. Tra l’altro ci sono situazioni emergenziali in cui una democrazia decide di assumere o assegnare potere straordinari, come durante una guerra, un terremoto o una pandemia, ma questi poteri vanno esercitati in modo intelligente ed efficace. Non, come accaduto in Italia, frammentandoli in un regionalismo che non ha permesso coordinamento ed efficienza. A volte sentiamo quelli che dicono “ah ma in Cina sono rapidi, non hanno democrazia però fanno bene”; non è così e questo è un approccio molto semplicistico che nasconde un errore di valutazione di fondo.

Un’ultima domanda. Perché un professore di filosofia ed etica dell'informazione che osserva il paradigma populista nel Regno Unito, in Italia ed in tutto il mondo, ha sentito il bisogno - nel 2020 - di contribuire a fondare una start up civica, Base Italia: può essere un laboratorio innovativo di idee e soluzioni con persone che trasversalmente si impegnano su iniziative comuni?

Questa startup civica ha bisogno di fare due cose assieme: da un lato generare nuove idee, direi “da ventunesimo secolo” e dall’altro riformare la politica nel senso di come si fa politica. Il che cosa (contenuti e idee) ed il come (in termini di modalità operative). Non è banale mettere insieme queste due esigenze. Alcuni ci hanno provato in passato, fallendo, e gli italiani sono delusi, dopo tante volte in cui altri hanno chiesto loro fiducia. A forza di gridare al salvatore, e poi il salvatore non arriva, le persone sono ormai diventate ciniche e scettiche. Se noi venissimo da una ottima democrazia che ha avuto solo un momento di crisi, sarebbe diverso e più facile anche far leva sulla fiducia che le cose tornino a funzionare efficacemente. Invece, noi veniamo da anni di promesse non mantenute e inganni, l’ultimo è stato quello del M5S, i cui eletti non si sono certo rivelati migliori dei loro predecessori. Abbiamo perso il conto delle promesse e degli impegni non mantenuti. Contenuti, modalità e un ulteriore sforzo contro la storia sono le tre sfide per rinnovare la politica, missione molto difficile ma necessaria.

È difficile immaginare che torni la fiducia senza nuove forme di partecipazione politica. Ma vale anche il viceversa: chi vuole partecipare a qualcosa per cui non nutre fiducia?

La democrazia del ventunesimo secolo è bene che sia più partecipativa, ma non secondo la modalità illusoria e ingannevole vista in Italia. È il processo di selezione il nodo, e la modalità può essere quella di non fare l’ennesimo nuovo partito, ma un movimento civico locale dove tanti nodi, messi assieme, fanno la differenza. La politica descritta come una battaglia, scontro, lotta – e noi purtroppo veniamo anche da una tradizione comunista in Italia che ha reso comune questa concezione, non solo Berlusconi con le sue analogie calcistiche – a me non piace proprio. Io preferisco dire “scendere in pista”, rispetto a dire “scendere in campo”, perché se uno corre di più stimola anche gli altri a fare meglio e a correre di più: non è un incontro di box, ma un incontro a chi fa meglio rispetto all’altro. La competizione che spinge gli altri a fare meglio, e migliora anche chi perde è bellissima. Se uno corre i 100 metri e arriva secondo perché il primo si chiama Bolt, ma magari realizza il record italiano, ottiene una bellissima soddisfazione. È questo quello che intendo dire quando sottolineo che in una buona democrazia vince la maggioranza, ma non perde la minoranza.

Ma anche quello di Base Italia è un modo per fare politica, no?

Non vogliamo entrare in politica ma farla venire da noi, nelle città dove viviamo e nei comuni dove abitiamo. Magari sarà all’inizio una politica più piccola, ma con la ‘p’ maiuscola, invece di una politica più grande ma con la “p” minuscola. Sono decenni di malcostume e di cattiva politica con compromessi al ribasso che hanno alimentato la sfiducia delle persone. Senza tornare credibili non è possibile fare alcuna politica affidabile e serve anche la consapevolezza della sfida del medio-lungo termine che abbiamo davanti. E chi può permettersi di fare questo sforzo, è bene che lo faccia. Va chiesto questo sforzo a chi oggi sta bene e potrebbe vivere tranquillo, come il sottoscritto. La riforma della politica avverrà ‘trascinando’ la politica fuori dalla politica.

@antonluca_cuoco