conte coronavirus grande

Le polemiche di queste ore sulla diffusione anticipata della bozza dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sono una fiera della buona coscienza a buon mercato. Chi l’ha anticipata alla stampa e le testate che l’hanno pubblicata hanno continuato a fare della “realtà parallela” dell’informazione una dimensione separata dai processi di comunicazione pubblica, essenziali per la gestione ordinata di qualunque crisi sociale, a maggior ragione di un’epidemia. È così dall’inizio dell’emergenza Covid-19.

Una crisi di questa natura implica processi decisionali complessi e ponderazione di interessi e valori fondamentali, di cui non è sempre semplice spiegare o fare accettare i presupposti: si pensi ad esempio alla polemica sulle linee guida degli anestesisti su quali pazienti privilegiare nel caso in cui le necessità eccedano le disponibilità di attrezzature e risorse. Il governo di questo fenomeno implica quindi una valutazione che o è politica o semplicemente non è, perché gestire un’epidemia non è gestire un’epidemia, ma gestire un Paese con una epidemia e quindi occorre fare valutazioni di costi e benefici che siano insieme corrette, socialmente accettabili e giuridicamente sostenibili.

La comunicazione – quella ufficiale e quella informale, da parte di soggetti accreditati – dovrebbe essere parte di questo processo di intervento e di governo dell’epidemia, invece da un mese va avanti una sorta di reality social-politico in cui chiunque parla come se gli fosse chiesto, semplicemente, di dire la sua, preferibilmente contro “la sua” di qualcun un altro.

Il fallimento a cui il Governo ha tentato stanotte di rimediare – la gente, anche nelle zone più a rischio, continua a muoversi, a incontrarsi e a stare fuori casa più del necessario e tutto ciò favorisce il contagio – è innanzitutto il fallimento di un processo di comunicazione e persuasione, che non può essere surrogato da disposizioni troppo prescrittive, per cui non sono implementabili in tempi rapidi meccanismi di controllo e di sanzione.

In Lombardia lavorano circa 4,5 milioni di persone e circa il 10% sono pendolari che arrivano da fuori regione. Anche dopo il DPCM di oggi, domani dovranno e potranno andare a lavorare. La gran parte di loro, per lavorare, compie inevitabilmente una serie di atti rischiosi per il contagio da Coronavirus. Prende mezzi pubblici affollati e frequenta luoghi di lavoro caotici in cui le distanze di sicurezza non possono essere rispettate. Al di là del desiderio comprensibile di esorcizzare il rischio vivendo “come se niente fosse”, molti di loro continuano a vivere “come se niente fosse” perché non capiscono in buona fede perché dovrebbero, per consiglio/ordine del Governo, evitare di andare a prendere l’aperitivo o a mangiare una pizza con gli amici, dopo avere lavorato con loro fianco a fianco per otto ore in una fabbrica o in un ufficio, se il Governo non consiglia/ordina loro anche di evitare di andare in fabbrica o in ufficio. “Il governo mi obbliga a prendere un treno pendolari per andare al lavoro, e poi mi censura se vado a divertirmi sui Navigli”?

In realtà la scelta di stare in casa e uscire solo per le attività necessarie è razionale e razionale è la scelta di consigliarla e nei limiti del possibile imporla (limiti molto stretti, per ragioni pratiche, prima che giuridiche), ma non è razionale pensare che appaia razionale e comprensibile a tutti e che quindi sia spontaneamente corrisposta nei comportamenti di massa.

Dietro quel “necessario” c’è un calcolo e una teoria delle scelte pubbliche che ha una natura essenzialmente politica e quindi implica per funzionare un forte riconoscimento sociale. È necessario attendere alle esigenze della vita quotidiana come comprare alimenti e generi di prima necessità o seguire le cure mediche prescritte. Ed è necessario lavorare, non solo per avere di che vivere – che nessuno regala e lo “Stato” non può garantire a tutti quelli che decidano di mettersi in auto-quarantena – ma per impedire che l’Italia si fermi e con essi si fermino anche la produzione o la fornitura di beni e servizi di prima necessità, medicine comprese. Perché purtroppo non è vero che si potrebbe combattere meglio il Coronavirus se l’Italia si fermasse di botto e gli unici a uscire di casa per lavorare fossero medici e infermieri.

Bisogna il più possibile evitare che si contagino e ammalino persone di Coronavirus, ma anche evitare che l’Italia nel giro di poche settimane diventi il Venezuela. È troppo difficile spiegare questo all’opinione pubblica? È meglio lasciare prudentemente dei non detti e poi censurare moralisticamente chi non se ne sta a casa? Dagli effetti, non si direbbe. Anche perché l’effetto opposto – che la gente si chiuda in casa e si rifiuti in massa di andare al lavoro – avrebbe effetti sulla vita e sulla salute degli italiani altrettanto catastrofici dell’epidemia incontrollata di Coronavirus.

@carmelopalma