Come la proibizione spegne l’innovazione in agricoltura
Scienza e razionalità
È una coincidenza di date a ispirare questo scritto. Il 29 maggio è stato l’anniversario della nascita di Nazareno Strampelli, l’agronomo/genetista che a cavallo tra Ottocento e Novecento, fino al Fascismo, ha dato un contributo enorme all’agricoltura italiana (e non solo) con le sue ricerche sul frumento. Una “rivoluzione verde” ante litteram.
A un piano inferiore, il 29 maggio è stata anche la data in cui sono stato invitato a intervenire – con risultati personali scadenti, stante la mia incapacità di parlare in pubblico – alla presentazione di un libricino a Ferrara: “Proibisco ergo sum”, curato da Filomena Gallo e Marco Perduca per l’Associazione Luca Coscioni ed edito dalla Fandango. È una raccolta di proibizioni tutte italiane, e tutte folli. Tra queste ci sono quelle che riguardano la ricerca, e la ricerca in campo agronomico.
E mi è venuto così in mente l’ennesimo paradosso del tic proibizionista italiano: mentre ancora oggi celebriamo e sfruttiamo i prodotti della ricerca genetica effettuata da Strampelli con i ‘rudimentali’ strumenti di allora - se il vostro chef preferito vi canta le lodi dell’antico grano “Senatore Cappelli”, lo dovete a Strampelli che lo inventò – siamo anche cittadini dello stesso Paese che ha troncato e tronca la ricerca genetica in agricoltura. Parlare degli OGM sarebbe facile e ripetitivo: in Italia da più di un decennio non li si può sperimentare in campo aperto, tutto va tenuto al chiuso di un laboratorio, con ovvi vantaggi per chi non conosce limitazioni del genere e può sfruttare anche la ricerca prodotta da queste parti senza essersene sobbarcata il costo. Ma forse è più significativo parlare di quel che accade con biotecnologie più recenti, che non vivono – non ancora almeno – le frizioni ideologiche che hanno accompagnato la storia degli OGM, come CRISPR/CAS9.
“Nonostante le potenzialità e nonostante il fatto che in altri paesi quali gli Stati Uniti o il Canada prodotti del CRISPR siano stati giudicati sicuri e siano già pronti a raggiungere gli scaffali dei supermercati – scrive nel libro Vittoria Brambilla, ricercatrice nel Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali dell’Università di Milano -, CRISPR in Italia è per ora ancora relegato nelle serre sperimentali a contenimento. Non ci è permesso fare esperimenti in campo, cosa molto importante quando si studiano piante che normalmente non crescono chiuse in serre climatizzate, bensì in campo aperto”. La questione specifica non è solo italiana ma, ancora una volta, rimane indice di come abbiamo rinunciato a farci portatori (e sfruttatori) di innovazione in un settore, quello agricolo, la cui importanza viene enfatizzata un giorno sì e l’altro pure. Il blocco anti-OGM si è esteso di fatto anche a CRISPR, finita risucchiata in quel vortice normativo/proibitorio.
Notizia recente è che un gruppo di ricerca cinese, utilizzando CRISPR, è riuscito a modificare l’attività di una decina di geni del riso, ottenendo un più che significativo balzo in avanti della resa produttiva (25-31%) nella sua sperimentazione. Ed è ancora la ricercatrice Brambilla – intervistata dalla giornalista Anna Meldolesi su CrisprMania e poi ripresa da Le Scienze – a evidenziare il nostro ritardo: “Beati loro che possono fare le prove in campo aperto. Noi aspettiamo l’autorizzazione delle autorità competenti da un anno e mezzo, e ci hanno fatto sapere che la risposta non arriverà a breve”. Ovvero, mentre gli altri vanno avanti, allargando le loro conoscenze e mettendole alla prova, noi siamo – come minimo – in ritardo di un anno e mezzo in un settore della ricerca avanzatissima che sta sbocciando e che, senza ricadere nella retorica della “Salvezza”, potrebbe portare enorme beneficio a uno dei settori più importanti della nostra economia. A rendere poi tutto ancora più preoccupante, anche per chi ha paura dell’eccessivo peso che le multinazionali hanno nello sfruttamento delle biotecnologie agricole (come è stato ed è nel caso degli OGM), è che chi si lamenta non sono i grandi gruppi privati, ma i ricercatori pubblici: è la ricerca pubblica, quella roba con cui ci si riempie la bocca insieme alla parola innovazione quando si parla di ridare slancio all’Italia, ad essere tramortita dal bastone brandito da un legislatore cieco.
Ed è così che siamo passati dall’essere pionieri nella ricerca e nell’inevitabile pragmatismo che accompagna la scienza applicata all’agricoltura, all’essere quelli che devono aspettare che prima o poi passi il treno, sperando, nel caso, di riuscire ad acchiapparlo.