malati di alzhaimer big 

Il caso di Alfie Evans dimostra una verità profonda su cui non solo il partito pro-life, ma anche quello pro-choice dovrebbero riflettere, cioè l’insufficienza del principio dell’autodeterminazione del malato come unico criterio ordinatore delle relazioni terapeutiche. La volontà del malato (a prescindere da come la stessa sia accertata o interpretata da parte di familiari, curatori, giudici... ) non sempre coincide con il migliore interesse del malato, per come esso può essere giudicato secondo criteri scientifici e deontologici. La sua espressione ha una validità incondizionata in negativo: nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario coatto (salvo possibili conseguenze per persone terze), ma la ragione di questo limite non è deontologica, bensì civilistica, e rimanda all’habeas corpus, non al Giuramento di Ippocrate.

La volontà del paziente non può essere altrettanto incondizionata in positivo, nell’imporre ai medici cosa essi debbano fare: in teoria dovrebbe essere pacifico che un paziente, ad esempio, non può ordinare ai medici, né in forma attuale, né in forma anticipata, la prosecuzione di una chemioterapia senza esito o il non “distacco delle macchine” in caso di morte cerebrale oppure, al contrario, di cooperare a un suicidio assistito inteso come cura del male di vivere (ricordiamo il caso di Lucio Magri) e non come estremo rimedio e sollievo alla sofferenza inflitta da una malattia inguaribile e incurabile.

 Ma tutto quello che dovrebbe essere pacifico – perché ancorato ai principi della scienza medica – paradossalmente oggi non lo è più perché il principio dell’autodeterminazione terapeutica (lo stesso che rimbomba dietro le retoriche salvifiche di tanti imbroglioni e guaritori) si è mangiato l’intero campo della discussione deontologicaInvece – e anche il caso di Alfie Evans lo dimostra – esso andrebbe relativizzato e non assolutizzato, per evitare la deriva verso una medicina “post-terapeutica” e il definitivo sradicamento della relazione tra medico e paziente dai suoi fondamenti deontologici, che sono etici in un senso specifico e non necessariamente coerenti con ogni sorta di opzione morale.

Nel caso che ha diviso l’opinione pubblica internazionale e che il governo italiano ha cavalcato con troppa spregiudicatezza e leggerezza politica, i medici non avevano affatto deciso che Alfie dovesse morire – a deciderlo, se così si può dire, era la malattia crudele da cui era affetto - ma che i trattamenti di sostegno vitale cui era sottoposto fossero ormai futili e sproporzionati, perché privi di qualunque finalità propriamente terapeutica, non essendo di per sé terapeutica la mera prosecuzione della vita biologica attraverso la surrogazione delle funzioni vitali.

Inoltre, medici e giudici britannici si sono opposti al trasferimento di Alfie in Italia per le stesse ragioni, che sono ovviamente discutibili, ma sono quelle specifiche ragioni e non altre, meno che mai l’imposizione della sovranità statale britannica sul corpo di un bambino dalla doppia cittadinanza. Non c’è niente di eugenetico, infatti, nell’idea che trattamenti futili e potenzialmente gravosi per un paziente siano considerate forme di accanimento terapeutico e non solo possano, ma debbano essere sospese o impedite. E non c’è niente di anomalo nell’affermazione della responsabilità dei medici nel valutare la compatibilità deontologica di un intervento sanitario estremo, senza provate possibilità di successo.

Non c’entra nulla il paternalismo medico, che presuppone l’espropriazione del malato e dei suoi familiari di ogni potere di informazione e consenso rispetto ai trattamenti sanitari. Il rischio che il caso Alfie (o per meglio dire la reazione scandalizzata alla decisione dei giudici inglesi) fa balenare è esattamente quello opposto, quello della espropriazione del medico della responsabilità di cura, compresa la valutazione dell’appropriatezza e della sostenibilità dei trattamenti richiesti direttamente dal paziente o indirettamente dai genitori, dai familiari, dai fiduciari. La famiglia e i sostenitori del trasferimento di Alfie, compresi quelli dell’Ospedale Bambino Gesù, non hanno eccepito che il bambino altrove potesse meglio essere curato, ma semplicemente che altrove sarebbero proseguite le terapie di sostegno vitale richieste dai genitori.

Ora, anche al di là del problema, che non consideriamo, del ruolo dei genitori nell’apprezzamento del miglior interesse del bambino in casi come questo, è evidente che l’obiezione ai giudici e medici inglesi è stata, non solo retoricamente, “auto-determinista”, sulla base del principio che in un conflitto tra volere e sapere, tra coscienza e scienza, e alla fine tra il malato e il medico comunque debbano sempre “vincere” il malato e la sua famiglia, con i loro valori. Fosse pure accanimento terapeutico quello prospettato per Alfie – questa è la tesi – era autorizzato e dunque moralmente imposto dalla volontà dei genitori. È la ragione per cui in perfetta buona fede Beppino Englaro si è schierato, da padre, dalla parte del padre di Alfie in nome del primato della volontà dei genitori.

Peraltro, anche tutte le discussioni sulla “dignità della vita” in condizioni di malattia estrema e dolorosa rischiano di essere pericolosamente extra-deontologiche, perché nella maggioranza dei casi (non solo in alcuni eccezionali) i medici negli ospedali curano condizioni patologiche gravose, che suscitano nei pazienti un senso profondo di umiliazione e di ribellione e dunque una percezione di “indegnità” della vita. E dunque, anche i sostenitori dell’eutanasia (come il sottoscritto) dovrebbero evitare di intendere i medici come meri fornitori di “servizi” per la vita e per la morte, con l’unica guida della volontà e dei valori del paziente. L’uso oltranzistico del principio di autonomia, unito al logico pluralismo nell’apprezzamento della dignità della vita, può portare all’estrema conseguenza di allontanare la medicina dalla cura della vita umana e di dirottarla, senza ordine, all’inseguimento di tutti i possibili e contrastanti voleri e desideri, in una deriva – lo ripetiamo – sinistramente post-terapeutica.

@carmelopalma