Possiamo dormire tranquilli? È sicuramente questa la domanda che in questi giorni molti italiani si stanno ponendo dopo i tragici fatti di Parigi. Il dibattito politico e il "rumore di fondo" televisivo non aiutano a fare chiarezza e mutano, come in un gioco di prospettive distorte, anche la dimensione delle minacce, generando quindi un'inquietudine diffusa, come rispetto a un pericolo generalizzato e imminente, ovunque e per tutti.

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Se dessimo ascolto alle teorie della coalizione "lepenista" d'Italia e ai tanti fan - dell'ultima ora e non - di Oriana Fallaci, la risposta sarebbe certamente "No!", come se l'assoluta gravità dei fatti e della sfida islamista autorizzasse di per sé prospettive apocalittiche. Per ovvie ragioni, chi ha sempre lucrato politicamente e culturalmente sulla contrapposizione Occidente-Islam non può in questi momenti che rincarare la dose, come se avessimo assistito non a un'azione sanguinosa del terrorismo jihadista, ma a un'annessione di Parigi da parte dell'Isis e all'arrivo delle truppe combattenti verso la frontiera italiana.

Se si guarda alla storia dei conflitti interni al mondo islamico, dovrebbe essere ben chiaro che gli attentati terroristici che hanno colpito l'Occidente e gli occidentali abroad sono di gran lunga inferiori a quelli che hanno avuto non solo come vittime, ma come obiettivo arabi e musulmani, individuati come un nemico politico-religioso. Le prime vittime del terrorismo sono "loro", non siamo "noi". Il jihad che si estende minaccioso da questa parte del Mediterraneo è la proiezione globale di una guerra "intra-islamica".

Dovrebbe bastare questo, a tranquillizzarci? Ovviamente no, ma è indispensabile capirlo, per sgombrare il campo dagli equivoci e per non ricambiare con una sorta di contro-guerra-di-religione quella che c'è stata dichiarata, danneggiando così l'immagine di un Paese democratico, laico e civile e pregiudicando anche l'efficienza delle vere politiche di sicurezza, che per funzionare non possono essere condotte indiscriminatamente contro tutti i residenti di religione islamica, a prescindere da ciò che essi concretamente sono, dicono e fanno.

Il nostro livello di sicurezza è adeguato alla minaccia, dicono gli esponenti di governo a seguito gli attacchi di Parigi. Diffidare pregiudizialmente di queste garanzie e rifiutarsi anche di prendere atto dei fatti, sospettando che dietro ci sia sempre qualcosa di oscuro o di non detto, non aiuta a migliorare la situazione della sicurezza, ma solo a diffondere un'insicurezza "percepita" altissima. La macchina dell'intelligence sta funzionando e i risultati sono tangibili: in Italia non ci sono stati attentati, fino ad ora.

Per comprendere la situazione attuale, ma soprattutto per avere una visione più chiara del futuro, torniamo a prima dell'11 settembre 2001. Prima dell'attacco alle Twin Towers di New York, il sistema di intelligence ignorava quasi del tutto il pericolo proveniente dalle frange dell'Islam più radicale; nell'esercito di centomila agenti della CIA vi erano poche decine di esperti in grado di parlare e di leggere l'arabo e di comprendere le tensioni ideologiche e geopolitiche che attraversavano il mondo islamico.

Quell'attentato ha cambiato radicalmente l'organizzazione e la qualità dei servizi di tutto il mondo, e quindi anche di quelli italiani. Il nostro apparato di sicurezza, composto sia dall'AISI e AISE, le agenzie dei servizi segreti, che dalle forze di polizia, i servizi centrali e interprovinciali della Polizia di Stato (SCO), Arma dei Carabinieri (ROS) e Guardia di Finanza (GICO), si occupano fin dalla loro istituzione di eversione, sia interna che esterna.

Se nel 2001 la popolazione di religione musulmana nel Regno Unito e nella Francia era già cospicua e poteva considerarsi un lascito del periodo post-coloniale, in Italia invece si era appena ai primi flussi migratori provenienti dall'Africa settentrionale. Gli attentatori protagonisti nei tragici giorni di Parigi erano francesi di seconda generazione, cresciuti in periferie segnate dalla disoccupazione e dal degrado e attratti dall'islam radicale come fattore di identità e di riscatto, oltre che di vendetta sociale.

È un fenomeno quantitativamente e qualitativamente più forte di quello registrato in Italia, dove la popolazione con queste caratteristiche socio-culturali è ancora contenuta, il fenomeno dell'islamismo "di ritorno" molto meno diffuso e quindi, anche per una ragione di proporzioni, il numero di quanti hanno deciso di abbracciare il jihad è certamente più controllabile. Questo importante dato è confermato, per esempio, dal fatto che si conosce in modo abbastanza preciso l'elenco di foreign fighters partiti dall'Italia per arruolarsi nelle file dell'Isis.

Sarebbe insomma importante che i cittadini italiani guardassero a questo nuovo pericolo-terrorismo, diverso da quelli che hanno già insanguinato il nostro paese e il nostro continente, con più razionalità e rispetto dei fatti.