Erdogan

Tra poche settimane la Turchia va al voto per scegliere il suo Parlamento, con il partito di Erdogan che dopo molti anni rischia di non vincere la sfida elettorale. C’è uno scenario di cui non sentiamo mai parlare, credo perché imbarazzante più che per la sua implausibilità: quello di una svolta anti-democratica del presidente turco, che di fronte a un risultato sgradito potrebbe usare tutte le sue leve di potere per cercare di bloccare il processo di rinnovamento voluto dai cittadini.

La Turchia è un membro NATO con cui il governo russo mantiene ottimi rapporti, nonostante le vendite all’Ucraina dei famigerati e letali droni Bayraktar TB2 (che hanno fatto strage dei tank con la Z nei primi mesi dell’invasione); è anche il mediatore dell’unico accordo vigente tra ucraini e russi, quello sulle esportazioni di grano via mare, nonostante abbia chiuso gli stretti al passaggio delle navi da guerra di Mosca. Il ruolo del presidente Erdogan come cerniera nei rapporti tra l’Occidente e il governo di Putin è di una rilevanza che era inconcepibile fino al momento in cui le truppe russe hanno attraversato i confini il 24 febbraio scorso.

Questo può renderlo indispensabile, agli occhi degli altri membri della NATO, anche se decidesse di trasformare la democrazia turca in una compiuta autocrazia. Uno scenario che ripeterebbe quanto è stato tentato a Washington DC e Brasilia, ma in un luogo che oggi è diventato il crocevia da cui passano molte strade decisive per il futuro dell’Ucraina, e quindi dell’Occidente che la sostiene: incluso, non a caso, l’ingresso nella NATO della Svezia, al momento bloccato proprio da Ankara. Va ricordato che la NATO prevede due caratteristiche per l’accesso di nuovi membri che la Turchia non sembra soddisfare appieno: l’esistenza di un sistema politico democratico funzionante (basato su un’economia di mercato) e un trattamento equo delle minoranze etniche.

Che questa visione non sia una fantasia senza capo né coda lo dimostra un vecchio articolo del Washington Post, che aveva già notato come “the United States is far less likely to dump a dictator if there is a credible ideological alternative to liberal democracy and capitalism that opponents might institute — if given the chance to govern”. In questo caso non si tratta tanto di un’alternativa ideologica, quanto della difficoltà di fare a meno di un manovratore abile come l’attuale presidente turco per sostenere i principi e valori fondanti della NATO, incarnati da un oppositore vincente nelle urne ma senza il potere di garantire una transizione di governo ordinata.

Il doppio problema di quei principi e valori è che da soli non stanno in piedi, ma che senza di essi cade la maschera della NATO come difesa della democrazia. Se fossi nei panni di Erdogan dormirei tranquillo: è possibile che i suoi alleati, pur di non regalare la Turchia alla sfera di Mosca, ingoino qualsiasi rospo che il neo-sultano decida di presentare loro dopo le elezioni (magari scambiando la propria sopravvivenza al potere con la ratifica dell’ingresso svedese nell’Alleanza Atlantica, ed eventualmente chiedendo anche la fornitura degli agognati F35). Come dimostrato finora in tutte le crisi, da quelle con la Grecia e la Francia sulle acque dell’Egeo a quella con Washington sull’acquisto dei missili russi S-400, Erdogan è uno spregiudicato giocatore d’azzardo che finora non ha mai sbagliato scelta su quando rilanciare e quando passare la mano.

Qual è l’unica incognita in questo quadro a tinte fosche? La reazione dei cittadini turchi. Ma in un Paese in cui la democrazia è già stata sfibrata da anni e anni di scelte autoritarie e repressive, non sarebbe sorprendente che la piega degli eventi assuma l’andamento di altre situazioni simili, in cui la stabilità del governo ha fatto premio su qualsiasi considerazione di giustizia e di rispetto della rule of law. Vale anche per gli alleati, Washington in primis: la “ragion di Stato” è ancora l’unica legge che i governi nazionali, a prescindere dal proprio orientamento, tendono a rispettare come movente delle reciproche scelte.

Triste dirlo: ma per salvare la faccia alle democrazie occidentali servirebbe un chiaro successo nelle urne di Recep Tayyip Erdogan. Che poi questo successo salvi anche la democrazia turca è una speranza tutta da dimostrare.