cinema grande

Figura dominante dei salotti anni 70, trasformata in macchietta televisiva negli anni 2000 interpretata dalle archistar, l’architetto ha completamente abdicato al proprio ruolo culturale e professionale nella trasformazione fisica delle città.

Con il Covid le amministrazioni sono intervenute in maniera drammatica sul corpo normativo nei settori sanitari, amministrativi e nell’economia. L’effetto sulle città e sul tessuto edilizio è stato altrettanto violento, con attività ormai a un passo dall’estinzione ed altre in cerca di una difficile sopravvivenza futura.

Gli architetti? Non pervenuti oppure, al massimo, negazionisti. Tutto proibito, oppure sottoposto a pareri inutili e sterminati. Entriamo nel concreto. I commercianti più attenti si chiedono come sfidare le piattaforme, come battere in qualità ciò che sembra imbattibile economicamente. Centri commerciali in crisi, negozi di strada vuoti. E l’architetto si trastulla nella difesa delle edicole come “presidio territoriale”.

I cinema non avranno mai più lo stesso ruolo. Sono troppi, troppo in centro e senza prodotti. L’architetto si commuove pensando ai nuovi cinema paradiso ed alla poesia della sala densa di fumo. L’idea che al cinema vadano solo anziani a un solo spettacolo al giorno con capienze marginali non lo sfiora e che la nuova genialità sia concentrata nelle serie tv nemmeno, dato che segue solo la Rai. Chi riflette su cosa fare in questi spazi enormi che generano crateri per le strade, ricovero di senzatetto o semplicemente sbarrati con orrende paratie? Palestre, spazi per altri tipi di commercio, uffici o call center (invece di essere sbattuti in periferie sperdute) o l’ormai leggendario coworking? La risposta ovviamente non è immediata, ma va discussa subito anche perché il disastro economico del crollo della rendita urbana può apparire provvidenziale solo a qualche veteromarxista fuori moda. Per sfilare il potere decisionale agli orridi capitalisti servirebbe un dibattito culturale. Ma l’architetto negazionista non lo sa. Lui proibisce.

Il dibattito deve essere vero, vivace, acceso, e portare alle modifiche normative in pochi mesi e non con le infinite procedure delle “varianti urbanistiche” in cui si crogiuolano intere generazioni. Nel prossimo inverno i Comuni dovrebbero essere in grado di autorizzare il recupero degli edifici dismessi invece di favorire sempre e comunque la dispersione urbana. Recuperare è ecologico, non speculativo. Proprio nella proibizione della trasformazione degli edifici esistenti il negazionista da il meglio (peggio) di sè.

Guardando i tanti immobili trasandati delle nostre città si dovrebbe pensare che l’architetto non possa che esultare nell’auspicare lavoro, qualità ed efficientamento energetico. Solo gli addetti ai lavori hanno chiare le sconfinate esigenze normative legate a tutte le attività produttive, al commercio, alla ristorazione ed al comparto alberghiero. Igiene e sicurezza, tutela antisismica, esigenza di confort estivo ed invernale. Un delirio. Ma l’architetto negazionista proibisce o, al massimo, prescrive. Non ha dubbi che le norme siano applicabili agli edifici storici, ma non ci ha mai provato. Al massimo discute su cosa ha visto a Parigi. Su Londra non apre bocca perché in fondo si rende conto che sono degli innovatori straordinari.

Poi accadono cose davvero tristi. Dopo vent’anni di abbandono viene finalmente restaurato un edificio a Roma accanto a Presidenza del Consiglio e Parlamento con un grande negozio di computer dal design minimalista (niente nomi......). L’architetto negazionista denuncia a Repubblica le macchine del condizionamento sul tetto.

Prendiamo allora il caso del San Giacomo, l’ospedale nella super ZTL vietata anche a quelli della ZTL del centro storico. Va ovviamente ripristinato secondo una corrente benpensante rinforzata da immancabili opinionisti, anche se la Regione Lazio lo ritiene privo di bacino di utenza, non funzionale, costoso ed ingestibile. Limitiamoci agli aspetti edilizi. Un edificio da sventrare completamente per garantire salite e discese, libertà di accesso ai mezzi di soccorso, la immancabile ed indispensabile captazione di “aria primaria” ovvero pulita al di sopra di tutti i tetti come prevede la legge. E poi le esigenze della manipolazione dei cibi, delle canne fumarie, dello smaltimento rifiuti. L’architetto negazionista ha presente tutto questo e quanto sia incompatibile con il caro tetto a falde e il coppo e tegola alla romana? E come risolverà la viabilità? In bicicletta?

Problemi in cui impattano drammaticamente anche i musei, le cui regole di conservazione di dipinti ed altre opere deperibili sono assai rigide nel controllo di temperature ed umidità ai fini della salvaguardia.

Ma torniamo al negazionismo degli spazi urbani. Le città stanno velocemente cambiando ed adeguandosi alle esigenze post pandemiche con i relativi comportamenti soggettivi. L’architetto negazionista, che ha esecrato la realizzazione dei dehor nella piazze storiche dove invece si incontrano felici milioni di italiani, deve essere in grado di elaborare una risposta. Credibile ed efficace. Ne va del nostro patrimonio edilizio. Senza rendimenti non ci saranno investimenti e arriverà un immancabile declino. Questo sì, un vero dramma.

Rimane a latere il ruolo delle Soprintendenze ormai travolte da infiniti adempimenti normativi che devono esaminare anche semplici spostamenti di gabinetti “in area Unesco”; appare sempre più urgente una riorganizzazione degli uffici come immaginava anche Ranuccio Bianchi Bandinelli. Da un lato l’aspetto della tutela, dall’altro la gestione. Non c’è solo la separazione della carriere dei Magistrati al centro del PNNR. Per un paese come l’Italia il Ministero dei Beni Culturali è anch’esso il cuore del rilancio economico.

L’autore è iscritto all’Ordine degli Architetti dal 1987